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Aulo Crisma il 25 aprile compie 90 anni. Buon compleanno!

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Aulo Crisma, collaboratore di www.inchiestaonline.it, nostro  corrispondente dalle comunità montane di Giazza e Selva di Progno nonché autore di studi sulla minoranza linguistica cimbra e di libri come Parenzo,  gente, luoghi, memoria (2012), racconto autobiografico della sua infanzia in  Istria, il 25 aprile compie 90 anni.

Per l’occasione ripubblichiamo alcune pagine tratte dal suo scritto “Dieci anni con i cimbri”, apparso a puntate sulla rivista Cimbri/Tzimbar nel 2015 e ripreso integralmente su www.inchiestaonline.it . Amina, Vittorio,  e tutta la redazione di Inchiesta. gli augurano con affetto buon compleanno.

 

Aulo Crisma: Da “Dieci anni con i cimbri”:

 

La maestrina raggiungeva ogni giorno la scuola partendo dal Giòas, contrada dove abitava

 

La maestrina

La maestrina insegnava in prima e seconda, nell’aula a pianoterra. Da sotto il pavimento di legno, quando la scolaresca era in silenzio, si sentiva provenire lo scalpiccìo dei topi. Le arrivavano dalle contrade Bosco e Buskangrùabe dei  bimbi che non parlavano l’italiano. Si esprimeva soltanto in cimbro, la sua lingua materna, anche il piccolo Marino Dal Bosco della Buskangrùabe. Nel giugno del 1944 la sua casa e quelle degli zii vengono date alle fiamme dai nazifascisti che avevano avuto nei pressi uno scontro a fuoco con i partigiani. Il papà viene messo al muro. Il figlioletto, che allora aveva cinque anni, grida: “Teta, Teta, se tòatadi!”(Papà, ti uccidono!). Il comandante tedesco, meravigliato di sentire quelle parole “tedesche” che rivelano la disperazione del piccolo, lascia libero il padre.

Gli scolari parlanti cimbro, i parlanti il dialetto veronese e quelli parlanti l’uno e l’altro, tutti a Natale avevano imparato a leggere e scrivere, anche quello che leggendo i cartelloni dell’alfabetiere, che avevano una illustrazione per ogni lettera dell’alfabeto, giunto alle quattro lettere, corsivo e stampatello maiuscole e minuscole della  esse del serpente, con disinvolta sicurezza, declamava “s, s, s, s bisso. Un giorno le è capitata in classe la moglie del Lòkatzar, che senza dire né buongiorno né buonasera si è rivolta direttamente ai suoi figli, la bambina nel primo banco e il maschietto nell’ultimo:

“Quando che vignì fora de scuola, ‘né su dal Tilio. Ti Agostino porta a casa el petrolio e ti Ada la farina e ste atenti che la farina no la ciapa odor de petrolio. Ve racomando. Bongiorno, siora maestra”.

Ai vetri della finestra in fondo all’aula che dava sulla pubblica via veniva a picchiare con un dito la vecchia madre del Nane quando aveva potuto furtivamente sottrarre un ovetto che la nuora aveva raccolto nel pollaio su al Quartier. Perché la maestrina, che era anche sua pronipote essendo sorella del nonno, potesse berselo ancora caldo.

Un pomeriggio era stata invitata da una famiglia del Nouć a mangiare la ricotta. Sul pavimento della cucina attorno al paiolo vuoto, ma ancora caldo della polenta erano accovacciati i numerosi figlioletti che con un cucchiaio pescavano povain, ricotta, e frammenti di crosta. Vedendo con quanto appetito i bambini erano intenti a colmare qualche buco nel loro stomaco, la maestrina non ebbe il coraggio di sottrarre neanche un boccone alla cerchia festante.

 

Maria e Aulo Crisma alla prima messa del loro ex-scolaro Agostino Cappelletti.

 

Sposi

Maria ed io ci siamo sposati l’8 settembre del 1951 nella chiesa di Giazza. Testimone della sposa era lo zio Ambrogio e il mio era mio cognato giunto da Trieste con mia sorella. Da Trieste era arrivato anche mio fratello don Antonio per la celebrazione religiosa, alla quale presenziava lo zio don Bepo, che per l’occasione aveva cinto la fascia rossa da monsignore. All’uscita dalla chiesa nessun lancio di confetti, perché erano stati distribuiti in precedenza a tutte le famiglie dei nostri scolari. Sposi, testimoni, i due monsignori, parenti e amici ci siamo disposti sui gradini davanti alla porta principale per la fotografia di rito. Avevo dato la macchina fotografica in mano a Marieto Cavaliere, di Tregnago ingaggiato per fare l’autista con la sua Balilla. Alcuni genitori ci hanno invitato ad entrare nella scuola. L’aula di mezzo era stata abbellita con festoni alle finestre. Due scolare vestite con l’abito della prima comunione ci hanno recitato una poesia e ci hanno offerto i regali che i genitori avevano voluto farci: un artistico crocifisso con piedistallo ed un calamaio di cristallo con base nera e portacarte, nonché il supporto per il blocchetto calendario. I regali erano accompagnati da un foglio di auguri contenente i nomi di tutti i nostri alunni.

Il pranzo di nozze lo aveva preparato la zia Albina al Joas. Mia moglie ed io siamo partiti per un lungo viaggio durato oltre venti giorni.

Nell’estate successiva da Trieste era arrivata mia madre per conoscere la sua nuova nipotina. Scesa dalla corriera di linea al Dossetto, guardandosi in giro, ha esclamato: “In che buso che sé, fioi mii”. Lei, che viveva nella città giuliana in un appartamento a metà collina da dove poteva estendere lo sguardo su tutto il porto ed oltre, dalle punte dell’Istria alla laguna di Grado, fino all’estremo orizzonte dove il mare è toccato dal cielo, era rimasta impressionata dalle montagne che l’attorniavano così vicine.

In quel buco la vita scorre tranquilla. Il Ligio, servendosi del ghiaccio trovato in qualche anfratto sulle Gozze, ha fatto il gelato. Mia mamma mi ha domandato: “El xe furlan?” Lei aveva conosciuto soltanto gelatai friulani. Abbiamo comperato una carrozzina per condurre a passeggio i nostri bambini. Era la prima che compariva nel paese. Ma nessun’altra coppia di sposi ci ha imitato.

Avevamo preso in affitto da zio Tonin un appartamento composto da camera, cucina e scantinato, che comunicava con la scuola e con la vecchia casa dei Fabbris, che all’ultimo piano aveva lo studio, la camera da letto e i servizi che lo zio monsignore occupava nel periodo delle vacanze estive. Al ritorno dal viaggio di nozze abbiamo trovato la cucina-soggiorno e la camera da letto arredate con i mobili fabbricati dal nostro amico Vittorio Giordani di Cazzano di Tramigna. Un mobiletto era stato fatto apposta per posarvi la radio. La cucina economica Aequator ci serviva per preparare il cibo e per riscaldare tutti e due i locali facendo passare il tubo dei fumi per la camera. Sull’acquaio di pietra non sono appesi secchi per l’acqua, ma c’è il rubinetto. Non esiste il contatore: libera acqua in libero…stato. Per fare il bagno ci si serve del mastello del bucato. Il simpatico bottegaio di Selva, Gaetano Cazzola, come dono di nozze ci aveva dato due vasi da notte in ceramica. Per il fornello a gas l’artista del ferro battuto Berto da Cogollo ha  predisposto due solide mensole di ferro. La piastra di marmo da mettere sopra me l’ha fornita il marmista Bovo, che aveva il laboratorio dalle parti di Santo Stefano, vicino al Ponte Pietra, a Verona. Me l’ha indicato don Giuseppe Padovani, parroco di Selva, suo concittadino. Non mi è stato tanto agevole portare sottobraccio un rettangolo di marmo settanta per cinquanta, spessore due centimetri, da Santo Stefano a San Fermo, dove c’era la fermata più vicina della corriera. Avevo imparato dai montanari ad accettare di buon grado, quando non si può evitare, la fatica.

Nel 1952, per chiamare l’ostetrica, il Ligio prende in prestito una bicicletta dai forestali per correre a Selva. L’ostetrica arriva subito trasportata in motocicletta dal marito per portare alla luce la mia primogenita. “In casa dei galantomeni prima le done e dopo i omeni” mi dicono i compaesani. Nel Comune lavorano due levatrici: una nel fondo valle per intervenire  nel capoluogo e a Giazza e una seconda, residente a San Bortolo, opera sul territorio montano di questa frazione e di Campofontana. In questo modo viene assicurato un intervento più immediato.

In seguito il telefono pubblico raggiunge Giazza. Viene collocato nel negozio di alimentari di Attilio Lucchi e appeso al muro nel retrobottega. L’inaugurazione si è svolta con la benedizione del parroco e la soddisfazione dei paesani che, dopo il servizio di autocorriera iniziato nel 1950, si sentono ora ancor meno isolati dal resto del mondo. Chi telefona parla ad alta voce, per essere sicuro di farsi sentire dall’altra parte del filo, gridando il suo messaggio anche alla gente che fa la spesa.

Nel 1954, per l’arrivo del secondogenito, non occorre che mandi un corriere in bicicletta. Una telefonata nella notte al posto pubblico di Selva avverte l’ostetrica, che accorre prontamente accompagnata in macchina dal medico condotto. E’ arrivata giusto in tempo.

D’estate lo zio monsignore viene a Giazza per le vacanze. Ogni sera dopo cena mia moglie ed io con i bambini saliamo per le scale interne al suo appartamento per augurargli la buona notte. Lui apre un cassetto della scrivania, prende un biscotto o una caramella per darli ai nostri figlioletti. Quando è solo con la sorella parla in cimbro. La sorella gli si rivolge dandogli del voi. Anche tra i coniugi anziani la moglie dà del voi al marito.

Nel settembre del 1952, per l’inaugurazione della cappellina, costruita vicino al rifugio Scalorbi al Passo Pelagatta, dedicata ai morti alpini, don Bepo aveva composto una poesia in cimbro, con relativa traduzione in italiano. Mi ha dato una copia scritta di suo pugno con una calligrafia perfetta. Me l’ha letta con voce chiara perché potessi ripeterla nella cerimonia alla quale lui non avrebbe potuto partecipare. Infatti non sarebbe stato in grado di camminare tra i mucchi di sassi del tracciato della vecchia strada militare, che dal Passo Pertica al Pelagatta non era ancora percorribile da automobili.

Marco e Amina Crisma nella conca di Campobrun


Adriana Rezzele: Che bela la mé contrada

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Che bela la mé contrada

de sera tardi

quando ié tuti in leto.

Quando la dorme,

la gente l’è tuta precisa,

come quando se magna o quando se nasse

e quando se more.

La luna sta sera l’è picola e sconta.

Vardo le case co’ le luce smorsè

ié chiete, le sponsa anca lore.

Ié come de le cune

che ten la gente al caldo,

le ne varda fin che dormemo,

e le pensa:

adesso sì tuti ‘stessi!

Quando se dorme, ci sa in do nemo?

L’anima la se mola e la vola,

la va a sanarse da le nostre miserie,

dai nostri dispiaseri, da le cativerie

e dai bruti pensieri.

Par tornar piena de forsa e passiensa,

che a la matina se sveia

la doneta, l’ometo e la butina.

La ga el so da far a tignerne in sesto fin sera.

Ancò, doman e avanti avanti

fin che saremo noaltri a nar con ela.

Liberi da le miserie e dai dispiaseri.

Presentazione del libro di Aulo Crisma: “Dieci anni con i Cimbri”

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Il  2 dicembre 2017 a Selva di Progno (nella Lessinia veronese) è stato presentato il libro di Aulo Crisma DIECI ANNI CON I CIMBRI in cui un profugo istriano racconta la storia, che diventa anche la sua storia, dell’ultimo paese della Lessinia  dove ancora, nell’immediato dopoguerra, era vivo il “taucias garéida”, la lingua cimbra. Pubblichiamo la cronaca della serata e  i discorsi di Aldo Ridolfi (autore della introduzione al libro) e di Vito Massalongo (presidente del Curatorium Cimbricum  veronense). Le foto sono di Amina Crisma.

 

1.  Breve cronaca della presentazione    

Per la presentazione di DIECI ANNI CON I CIMBRI la sala del centro di educazione ambientale accanto  al municipio di Selva di Progno era affollata non solo dai residenti, ma pure da amici e conoscenti venuti dalla montagna e dalla pianura, anche da lontano, gaselje kent hia ime lante un ime pergan unta ‘un veare, come ha detto nella lingua cimbra l’autore in apertura della serata. Erano presenti alcuni vecchi scolari. Non mancava Silvia Tebaldi, della casa editrice Gianni Bussinelli, che ha curato la stampa del libro con notevole perizia L’incontro culturale, magnificamente organizzato da Elisabetta Peloso, assessore alla cultura, con Antonia Stringher, vicepresidente dell’ associazione “De Zimbar ‘un Ljetzan”, Monica Furlani, del Coro Voci del Carega, Paola Nordera, che collabora al funzionamento della biblioteca intitolata a suo padre, studioso ed editore di testi riguardanti la civiltà dei coloni tedeschi, si è trasformato in una calorosa manifestazione di affetto nei confronti di Aulo Crisma. “Foresto tra foresti, Aulo l’istriano racconta i Cimbri”: questo è il titolo dell’articolo di Vittorio Zambaldo apparso su L’Arena, quotidiano di Verona. I coloni insediatisi verso la fine del XIII secolo sui Lessini provenienti dalla Baviera e, forse, da altre regioni della Germania erano profughi.

I loro discendenti hanno accolto con amicizia un altro profugo.                                                                                                                          

Aldo Ridolfi, autore della prefazione, ha colto i significati più profondi nella narrazione di fatti e persone che pur si muovono con naturale semplicità. Si è soffermato sull’aspetto storico Vito Massalongo, presidente del Curatorium Cimbricum Veronense, la benemerita associazione che si batte per salvaguardare il patrimonio linguistico-culturale lasciato dai Cimbri. I discorsi sono stati accompagnati dalla proiezione di vecchie foto ad illustrazione della Giazza di una volta. Il sindaco Aldo Gugole ha invitato l’autore a scrivere, dopo quella di Parenzo e di Giazza, la storia di Selva di Progno, dove ha trascorso il periodo più lungo della sua vita.                                                                                                                                                                            

In chiusura, alcuni elementi del Coro Voci del Carega ha cantato Pergan maine Teljar, Montagne mie vallate, canzone valdostana tradotta in cimbro dal maestro Crisma con l’aiuto dei suoi alunni. Nella sala si spandeva un’aria di commossa nostalgia.

 

2.  Aldo Ridolfi: Crisma, Dieci anni con i Cimbri

Presentare un libro è una cosa seria. Ce ne sono tante cose serie in una vita; presentare un libro, un libro di una persona che si conosce, con cui si sono condivise esperienze, un libro in perfetta presa diretta con la realtà, con la vita, con le persone è una di queste cose serie.

E dunque per me si pone, in questo momento, una bella responsabilità. Presentare un libro, oltre che una cosa seria è anche una responsabilità e io la sento tutta.

Che strada prendere, che dire?

Vorrei evitare di parlarne bene, il libro di Aulo si arrangia già da solo, non ha bisogno delle mie parole. Infatti presentare un libro non significa parlarne bene, né del libro né dell’autore. Né significa costruire delle classifiche o stabilire a che categoria appartenga.

Un libro come questo, e come il precedente Parenzo, va al di là di ogni “dirne bene”: è qualcos’altro. Né presentare un libro ha a che fare con la sintassi, con la grammatica, con il tempo dei verbi, con il congiuntivo.

E allora?

Potrebbe essere che presentare un libro voglia dire farne il riassunto mettendo in luce ora l’ambientazione, ora i dialoghi, ora i ritratti di persone, come si fa con i Promessi Sposi o con i Malavoglia. Ma questo con il libro di Aulo non è possibile; esso rifiuta con decisione ogni tentativo di sintesi. Ogni pagina racconta un fatto, un episodio, una persona e io non ho il diritto di espungere qualcuno o qualcosa. Ogni parola è da tenere da conto. Perfino la disposizione delle parole nella frase è da tenere da conto. Fare il riassunto sarebbe un oltraggio perché lì tutto è essenziale.

L’unica presentazione possibile è una lettura integrale, totale delle 98 pagine, compreso l’indice. Questa è l’unica strada da battere, l’unica onesta e rispettosa di libri come questo, Sono sicuro che ciascuno di voi, a casa, quest’inverno, leggerà il libro e farà la sua bella presentazione.

E allora che ci faccio io qui?

Bella domanda! Per uscire d’impaccio mi resta solamente un’ultimissima possibilità, un’estrema risorsa: raccontarvi cosa è successo a me in quanto lettore davanti al libro, nel corso della lettura. Ma dovete idealmente promettermi di non tenerne conto alla fine. Perché voi in quanto lettori e per di più “giassaroti” farete esperienze diverse dalle mie e tutte lecite.

A me, leggendo il libro di Aulo, è capitata una cosa meravigliosa: che il libro di Aulo ha svelato il suo valore terapeutico, più che una seduta dallo psicanalista, perché ha insinuato in me una visione serena, pacifica, tranquilla della vita, ha contribuito a migliorare – con i suoi racconti, con i suoi personaggi, con il suo humor molto sottile – la mia relazione con gli altri.

Mi sono sentito avvolgere da un’atmosfera di tranquillità, di serenità; ho toccato con mano il piacere straordinario che deriva dal fare le cose, dallo spingere in avanti e dalla parte giusta questo carretto che è la vita.

E una seconda cosa mi ha dato questo libro con le sue storie e le sue persone: mi ha fatto sentire che a questo mondo non ci sono solo banchieri che sottraggono il denaro ai risparmiatori, o criminali che ti assaltano lungo le strade e perfino in casa. No, il libro, con le sue storie e le sue persone – ripeto – mi ha raccontato che c’erano (e ci sono ancora) persone così, come gli abitanti dell’alta Val d’Illasi, i quali, uomini, donne o bambini che fossero, erano capaci di trasformare le fatiche durissime chieste dalla vita in montagna in momenti di serenità dignitosissima, magari riponendo nell’armadio la stola del celebrante o riparando la centralina con il fil di ferro.

E per finire un’ultima cosa fantastica che la lettura di Dieci anni con i cimbri e del precedente Parenzo produce nel lettore. E’ che ogni racconto, ogni persona ritratta, da semplice segno sulla carta si trasforma dentro di noi in una immagine reale e dunque quella gente la sentiamo al nostro fianco, ci pare di udirne la voce, di ascoltare l’incedere lungo la Sagaruan, perfino di avvertirne l’odore. Uomini e donne mai fotocopia, sono questi, capaci di conformarsi alla loro cultura ma altrettanto in grado di mantenere una loro invidiabile individualità. L’interpretazione della vita che quella gente qui raccontata ci propone è di ognuno di loro, insindacabilmente. Gesti parole debolezze od eroismi fanno di queste persone degli unicum perfettamente diversi gli uni dagli altri, mandando in frantumi ogni pretesa di raccontare le comunità di campagna o di montagna segnate da gretto conformismo.

In tal modo mi pare di aver tenuto fede all’intenzione iniziale, cioè di non “dire bene” del libro di Aulo, preferendo raccontare quanto “bene” ha fatto a me la sua lettura.

 

 

3. Vito Massalongo: Questo libro è un affresco. E’ un elogio alla delicatezza

Diario, resoconto della vita di un paese sperduto, poche case raggrumate in fondo alla valle che nell’autunno si addormenta mentre il sole abbandona la valle e le tenebre leggere coprono il minuscolo abitato. Il paese del mistero, scrive Aulo, e qui si ricostruisce una nuova vita, fatta di gelida acqua per lavarsi, fatta di sgalmare e di bimbi vocianti: una vita nuova lontando dalla sua Parenzo.

Nasce a Giazza un nuovo segmento di vita con l’osservazione attenta ed amabile di fatti e persone, che lui tratteggerà con una penna delicata e amorevole.

Ne nasce un quadro fatto di entusiasmo per la scuola, ma anche di ardite proposte didattiche, immergendosi nella nuova terra come fosse sua…E Giazza diventa il suo nido, la sua terra cimbra.

Per questo abbiamo già pubblicato in tre puntate sulla nostra rivista questo libro. Per riconoscenza e affetto.

Perché non ricordare gli esperimenti del giornalino scolastico, del Centro di Lettura (in sintonia con Piero Piazzola e Gianni Faè ?

Questo libro è un affresco. E’ un elogio della delicatezza.

Il Gussi che passa tre osterie per non far torto a nessuno…

Oggi si direbbe che è un imbriagòn.

 

Agnese Girlanda: Na presina de sol

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CARO DIALETO

Là, sul meàl de ‘na contrà

che pìsola fra aleluja de rose

e amen de ortighe,

podarea saltar fora ’na noneta

da’n cucugnel bianco che,

co ‘na parlantina svelta

nel dialeto de la so stirpe,

te snosela on fiume de ciàciare s-cete.

Magari,

co ’na cioca del grombial

mendà da angonare de passiensa,

la se sugarà i oci tirando in bàl

fesonomie scancelé dal tempo,

da pelagre…guere…

El so dir,

infrusinà da’n fogolar de àni,

l’è ‘na carta carbon che à salvà

caresè de àcenti, drento al derlo

de la so mente, nespole misse,

fraché ne la paja,

el caro vernacolo, anca se stramencià

da parole a la moda,

l’è ‘na somensa da salvar, ‘n’ostia

da metar ne la boca del cor

de ci nassarà anca dopodoman!

CARO DIALETTO – Là, sulla soglia di una contrada / appisolata fra alleluia di rose / e amen di ortiche, / potrebbe uscire una nonnina / con uno chignon bianco che,/ con una parlantina svelta / nel dialetto della sua stirpe, / ti snocciola un fiume di chiacchiere schiette. // Magari, / con una ciocca del grembiule / rammendato da gugliate di pazienza,/ si asciugherà gli occhi, tirando in ballo / fisionomie cancellate dal tempo,/ da pellagre… guerre… // Il suo dire, /affumicato da un focolare di anni, / è una carta carbone che ha salvato / carreggiate di accenti, dentro alla gerla / della sua mente, nespole fatte, /pigiate nella paglia,/ il caro vernacolo, anche se storpiato / da parole alla moda, / è una semenza da salvare, un’ostia / da mettere nella bocca del cuore / di chi nascerà anche dopodomani.

 

 

ECHI DESCALSI

 

Co’n fagotìn de speranse,

scavalcar el meàl del magro paesel

e scominsiar on viajo orbo,

lassando la sgroia, i bo

e la giovinessa,

par nar a montar sora

a’n bastimento de gente

fissa come le mosche

sora el selese de casa!

 

Saludar afeti,

muri infumeghè de canti,

peldoche, preghiere e sogni descalsi

ne le scarsele del cor,

rapolà come on fassoleto

moio de dolor.

 

Oramai, ch’el niàl pitoco

el somea on teschio sbiavo,

orbite strove le finestre,

ma…come on tatuagio

resta l’eco de ‘na vosse amorosa…

su la pel de l’anima.

 

 

ECHI SCALZI – Con un fagottino di speranze, /scavalcare la soglia del magro paesello / e incominciare un viaggio cieco, / lasciando il carro, i buoi / e la giovinezza,/ per andare a montare sopra / ad un bastimento di gente/ fitta come le mosche / sopra l’aia di casa! // Salutare affetti / muri affumicati da canti, / pelle d’oca, preghiere e sogni scalzi / nelle tasche del cuore / stropicciato come un fazzoletto / bagnato dal dolore. // Oramai, quel nido povero/ assomiglia ad un teschio pallido, / orbite scure le finestre, / ma… come un tatuaggio / resta l’eco di una voce amorosa…/ sulla pelle dell’anima.

 

 

L’OCIO DE LA MEMORIA…

…anca anco’…

‘na procession de formighete

scominsia on calvario novo,

scapade da la miseria nera

e scampade da la rabia del mar.

L’ocio de la memoria…

el rivede ‘na fila de poricristi

tampelar drio a careti, a Dodge

stipadi da valise de ricordi:

ori de fameja,

sensa poder darghe bado

a vessighe,bisogni, fame,sé

e paure boie!

Omeni, done, veci e buteleti

indirissadi a pagar la colpa

de essar nati e condané

da falsi sapienti, pronti

a eliminarghe onor e dignità,

par salvar la “mejo rassa”.

…a vardar i nasi longhi de serti

capanoni che sbufa nugole more,

cara neodina,

me ven da dir on amen

par chei tati destaché da le man

de so mama, pelé dei so rissoleti

deventè paruche…

Speremo che no ghe sia più

da pianzàr par i pecati

de ci vorea dominar el mondo,

omeni sensa anima, angordi

de potensa siben insanguenàda;

lori no i conosse le caresse de l’amor

e de l’amicissia.

L’OCCHIO DELLA MEMORIA … – … anche oggi …/ una processione di formichine/ incominciano un calvario nuovo… / scappate dalla miseria nera / e scampate dalla rabbia del mare… // L’occhio della memoria… / rivede file di povera gente / camminare dietro a carrette e Dodge / stipati di valige piene di ricordi,/ ori di famiglia / senza poter dare ascolto a vesciche, bisogni, fame, sete / e paure armate. // Uomini, donne, vecchi e bambini / indirizzati a pagare la colpa di essere nati e condannati /da falsi sapienti, pronti /ad eliminargli onore e dignità / per salvare la “migliore razza“ .// … ad osservare i nasi lunghi di certi capannoni che sbuffano nuvole nere, / cara nipotina, / mi viene da dire un amen / per quei bimbi staccati dalle mani / della loro mamma, derubati dei loro ricciolini / divenuti parrucche… // Speriamo che non ci sia più / da piangere per i peccati / di chi vorrebbe dominare il mondo,/ uomini senz’anima, avidi / di potenza seppure insanguinata; / loro non conoscono le carezze dell’amore / e dell’amicizia.

 

 

 

‘NA PRESINA DE SOL

 

El versor de la poesia el pol far

chel che’l vol…anca rebaltar

le strepole dei pensieri sensa sal,

lì nel campo sacagnà del vivar,

arando fin zò in fondo al so cor

a far rebutar on granin de felissità.

 

Mi, vorea desligar fassine de crussi

a sto mondo ruinà da calamari

del dolor, regalarghe parole e sorisi

che someja a papari e fiordalisi

che ciassa col vento!

 

…me alsarò col caval de Pegaso

e galoparò fin a scavalcar

chele nugole stroe…

brincarò brusché de stéle

par maurar voje de amicissia

impresoné nde ‘na tonega

de pigrissia…

 

Ma intanto tampelo par senteri

ingrovejè de indifarensa

a sercar sogni sempreverdi

e malgaritine da sfojar, tanto,

par mi, l’è albisogno poco-gnente

par imaginar

on castel de aria celeste,

‘na presina de sol e on baso

par credar ne la pace e ne l’amor.

 

 

Glossario : rebaltar/ rovesciare – strepole /stoppie – sacagnà / malridotto – rebutar/ rinascere – fassine / fastelli – calamari / occhiaie – tampelo /vado – ingrovejè / aggrovigliati

 

 

 

SCUNAROLE

 

 

Sopegando drio sese de giorni,

pantesa el me autuno,

el desliga nostalgie broente

mastegando pensieri ormai agri

che vorea butàr nel progno

e nar a dindolarme su ‘na scunarola

de sogni descalsi.

Smemorià, topa zò la sera

drento ‘na brenta colma

de arsimi e ricordi,

se alsa ‘na lagrema de mosto

forsi, la pol imbriagarme la mente.

 

Vorea inbacucàr chei silensi fredi

che i siga nel me cor…

e versarghe la porta a ’na ilusion

bona de inmamarme ancora

co chel sentimento divin,

po,’ serar sù impressia i conti.

 

ALTALENE – Zoppicando dietro siepi di giorni,/ fatica il mio autunno, / slega nostalgie bollenti masticando pensieri ormai agri / che vorrei gettare nel torrente/ e andare a dondolarmi su un’altalena/ di sogni scalzi.// Smemorata, casca giù la sera/ dentro una tinozza colma / di grappoli e ricordi, / si alza una lacrima di mosto/ forse, potrà ubriacarmi la mente.// Vorrei intontire quei silenzi freddi / che gridano nel mio cuore…/ e aprire la porta ad una illusione/ capace di incantarmi ancora / con quel sentimento divino, / poi, chiudere in fretta i conti. // Sospiro sotto l’ombrello della notte/ e osservo un aeroplano dagli occhietti rossi / sbirciare la luna che /aprendo le ali come una chioccia / accudisce una nidiata di stelle,/ intanto che un bisbiglio di vento / mi regala una dolce aria / profumata di primavera.

 

SENSA BUFAR

 

Storna..

vào a dritta e a sanca

vardando passar le ore

sensa bufàr

Me lasso nar strania

rimissiando  le ombrie de on vivar

sensa passion: no speto nessun,

no voi gnente;

l’acqua no me bagna

el sol no me scalda

no voi sentir gnanca

“messa da morto”

 

Da distante come la luna

scolto el me ridar…

pajassa rugolo

intorno a la tera e imbrojo

el tempo, tacandome a le sfranse

de on sogno color de’n vin

che me imbriagava!S

 

SENZA DISCUTERE Storna/vado a dritta e a manca/osservando passar le ore/senza discitere/Mi lascio andare stranita/ rimescolando le ombre di un vivere/senza passione: non aspertto nessuni,/non voglio niente;/l’acqua non mi bagna/il sole non mi scalda../non voglio sentire neanchr/ “messe da morto”/ Da lontano come la luna,/ascolto il mio ridfere../pagliaccia rotolo/intorno alla terra e imbroglio/il tempo, attaccandomi alle frange/ di un sogno colore di un vino/ che mi ubriacava!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aulo Crisma: Ricordo di Mons. Cappelletti, matematico e studioso della lingua cimbra.

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Giazza, un paesetto della provincia di Verona, incastrato nel fondo dell’alta Val d’Illasi dei Monti Lessini, per secoli rimasto quasi disgiunto dal resto del mondo, ha conservato intatto, per il suo isolamento, l’antico idioma dei coloni tedeschi insediatisi sulla montagna veronese sul finire del tredicesimo secolo.

A Giazza nel 1871 è nato Giuseppe Cappelletti, che diventerà il figlio più illustre della sua terra. Le note biografiche che seguono sono desunte in parte dal volume L’EREDITA’ CIMBRA DI MONSIGNOR GIUSEPPE CAPPELLETTI, Università degli Studi di Verona, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, a cura di Arnaldo Petterlini e Alessandra Tomaselli, volume che raccoglie gli apporti di vari autori in occasione del cinquantesimo anno dalla scomparsa di mons. Cappelletti.

Rimasto orfano in tenera età, allevato amorevolmente dai nonni materni, finiti i tre anni della scuola elementare, ha potuto usufruire del lascito del pfaffe Runc’, il parroco storpio don Domenico Gugole, per continuare gli studi presso il Seminario di Verona, dalla quarta elementare fino all’ultimo anno di teologia. Don Gugole è stato il primo pastore della neocostituita parrocchia di Giazza. Aveva accumulato una considerevole fortuna, di cui nessuno era riuscito a capire l’origine, avanzando fantasiose supposizioni, come quella che avesse trovato dell’oro. La rendita che derivava da un vasto pascolo con fabbricato sui Monti Lessini era destinata al mantenimento di due studenti nati a Giazza nel seminario di Verona. Un’altra rendita minore era riservata per provvedere al corredo delle ragazze che illibate si avviavano al matrimonio.

Il seminarista Cappelletti eccelleva in tutte le materie propendendo maggiormente per quelle scientifiche. I suoi studi teologia sono stati interrotti alla fine del primo semestre del quarto anno perché incaricato di insegnare matematica e fisica nello stesso Seminario. Ha insegnato ininterrottamente queste due materie fin oltre gli ottant’anni, non solo nel Seminario, ma anche nel Collegio Vescovile, per il quale aveva ottenuto il pareggiamento e ne era diventato preside, e all’Istituto Campostrini. Molti studenti appartenenti all’ élite veronese avevano beneficiato delle sue doti di insegnante chiaro, preciso e conciso e, nei suoi confronti, avevano mantenuto stima e riconoscenza anche a distanza di anni. L’autista del duca Acquarone, ministro della Real Casa, andava a prelevarlo in via Seminario per condurlo alla villa del Duca, a San Martino Buon Albergo, perché desse ripetizioni alla figlia.

Ha scritto testi scolastici per vari ordini di scuola: Nozioni di aritmetica razionale, Numeri primi – Teoria e applicazioni, Potenze e logaritmi e molti altri. Nel 1922 ha ottenuto il dottorato honoris causa in Matematica e Fisica in seguito alla partecipazione ad un concorso bandito dall’Istituto Superiore “Philotechnique “ dell’Università di Bruxelles. Titolo del concorso: “Concetto di numero”. Ma già nel 1913 era stato nominato membro d’onore e “Professeur ad honorem en sciences mathématiques” dall’Accademia Latina di Scienze Lettere e Arti di Parigi.

Nel 1920 la Società Accademica di Francia lo ha premiato con diploma e medaglia d’oro per le pubblicazioni di carattere linguistico sui XIII Comuni Veronesi. E per gli stessi studi è stato eletto Membro con Stella d’Oro dall’Accademia di Storia Internazionale di Francia. A Verona, nel 1927, è stato eletto socio corrispondente dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere. Nel 1939 diventa membro effettivo e, dal 1947 al 1950 Assessore per la classe di Agricoltura e Scienze fisiche, matematiche e naturali.

Se la passione per la matematica ha occupato la sua mente, l’amore per la sua lingua materna, il “taucias gareida”, la parlata tedesca, comunemente denominata cimbro, ha riempito il suo cuore. Gli studiosi l’hanno classificata come “alt hoch deutsche”, antico alto tedesco: alto da intendere non come nordico, ma riferito ai monti. Una lingua parlata dai tedeschi del sud. Ogni estate ritornava al paesello natio, Giazza, che lui preferiva chiamare Ljetzan, derivante, secondo lui, da una radice sassone: light, che significa luce.

 

 

 

Giazza è dunque splendente. Quando il sole, nel mattino inoltrato spunta all’improvviso superando l’alto crinale, le case abbarbicate sullo zoccolo dirupato del monte Campostrin, raccolte tutte intorno al campanile, sono inondate di luce. Giazza non è la “Glacia” fredda dei documenti parrocchiali, è la “Splendente”, anche se il suo splendore dura poco, specialmente d’inverno, con il sole che troppo tardi fa capolino ad est e troppo presto si nasconde dietro ai monti a ponente. A Giazza l’attendeva la sorella Caterina, cinque anni più vecchia di lui. Aveva venduto la capra per provvedergli un paio di scarpe. Non poteva andare a Verona con de gheimar, le sgalmare, calzature con la spessa suola di legno fatte in casa.

Nel suo paese il sacerdote, il professore, il monsignore, il Camerierfe Segreto di Sua Antità il Papa, era semplicemente don Bepo, amato da tutti. Con la sorella, nella loro casa ai piedi della chiesa, parlava esclusivamente in cimbro. Le brevi conversazioni contenevano lunghe pause tra una frase e l’altra. Caterina dava del voi al fratello, in segno di grande rispetto. A Giazza un tempo le donne davano del voi al proprio marito, ma non ai fratelli. Mia moglie, che era sua pronipote, ed io, con i nostri figlioletti abitavamo nella casa che comunicava con quella della nonna e del prozio sacerdote. Ogni sera andavamo dopo cena ad augurargli la buona notte. Don Bepo apriva un cassetto della scrivania e porgeva una caramella o un biscottino ai bimbi: “To’ Marco. To’ Mima”. Mia figlia non accettava la storpiatura del suo nome e diceva con aria risentita: “Io sono Amina”.

La messa celebrata da don Bepo durava venti minuti. Quella festiva con la predica venticinque. Gli si attribuiva la frase “paparele longhe e prediche curte” (tagliatelle lunghe, fatte in casa con uova e farina, e prediche corte). Soltanto lui poteva confessare il sordo dei Gauli, che parlava esclusivamente in cimbro e che in cimbro dava gli ordini alle sue vacche, che nella stagione dell’alpeggio consegnava al Baiarde. Costui, sceso dalla montagna si è lamentato con l’Angi dei Fiorentini, nipote del sordo, perché le bestie non lo ubbidivano. Per forza. Non capivano gli ordini detti in una lingua diversa.

Alle cinque in punto del pomeriggio don Bepo usciva per la quotidiana passeggiata lungo la strada, una delle poche pianeggianti, fino al cimitero e alla contrada Faggioni. Talvolta percorreva la stradina lungo il torrente fino alla Ferrazza. Le donne delle contrade gli chiedevano di dare una benedizione particolare perché le talpe andassero via dall’orto, perché il falco non rubasse i pulcini, perché la volpe non facesse strage di galline. E don Bepo, pur dicendo che tutte le creature di Dio hanno diritto di vivere, le accontentava.

La Margherita della Ferrazza si era rivolta a lui dicendogli in cimbro: ”Gutar Heare, don Bepo. Disa nast in vucs ha par gavrezzat alje de henje ime kuvilja ta i han vorghezzat tze spearan”. (Signore Iddio, don Bepo. Questa notte la volpe mi ha scannato tutte le galline nel covoletto che ho dimenticato di chiudere). E lui: “Daz ist de gheltar, ta du has nist gatziegat in hals in eiparuaz pa dai man benje er ist gabest nau in leban”. (Questa è la ricompensa poi che non hai tirato il collo a qualcuna per il tuo uomo quando era ancora in vita). (Aneddoto riferitomi da Rino Lucchi). Il Nane mi ha raccontato che dopo una benedizione le talpe non si erano trasferite dal suo orto a quello del vicino, ma in un terreno incolto.

Quando un suo vecchio alunno andava a salutarlo, fosse stato anche il provveditore agli studi, ad un certo punto, considerando esaurita la conversazione, si alzava e lo congedava senza tanti convenevoli. L’essenzialità era la caratteristica dominante che esprimeva in ogni sua attività, dalle stringate omelie alle lezioni di matematica e fisica, dalle pubblicazioni di contenuto scientifico a quelle sulla storia e la lingua dei “cimbri”. Gli bastano poche pagine per dare un “Cenno storico sulle popolazioni dei XIII Comuni veronesi ed echi della lingua da loro parlata”, pubblicato nel 1925. A questo suo primo lavoro seguiranno molti altri. Ogni occasione era buona per esprimere in cimbro un benvenuto, un brindisi, per celebrare l’entrata del nuovo parroco. E in cimbro pubblicava storielle, dialoghi, preghiere, canzoni religiose. Scriveva grammatiche e vocabolari. Raccoglieva toponomi. Nel 1956, due anni prima della morte, usciva”Il linguaggio dei Tredici Comuni Veronesi”. Ma un’opera di notevole spessore, scritta totalmente in cimbro con la collaborazione del glottologo bavarese Bruno Schweizer,, è “Taut6, Puox tze Lirnan Reidan un Scraiban iz Gareida on Ljetzan” – (Taut6, libro per imparare a parlare e a scrivere la parlata di Giazza). Contiene grammatica, mini antologia di brevi letture cimbre e vocabolario cimbro- italiano- tedesco.

Un testo, stampato nel 1942 a Bolzano da Ferrari-Auer, scritto tutto in cimbro, per cui può essere usato da chi lo conosce. Prezioso anche perché vi troviamo neologismi che traducono termini grammaticali italiani che in cimbro non esistevano. Per la consacrazione della chiesetta costruita al Passo Pelegatta, vicino al rifugio Scalorbi e dedicata ai Morti Alpini, nel 1952, mons. Cappelletti ha composto una poesia intitolata “Iz kljouklja un sounjarn un pergan”, La campanina degli Alpini. Me l’ha consegnata, scritta di suo pugno che sembrava stampata, con unita la traduzione, perché la leggessi durante la cerimonia. Egli non poteva parteciparvi, perché l’ultimo tratto della strada di accesso non era ancora percorribile da automobili. Ecco una delle sei strofe: Ja, du kljouklja, laut laut: Sì, tu campanina, suona suona un dai galauta snurre oubar alje de bipfilj e il tuo suono voli sopra tutte le cime ta alje de steiljar inkoundan e queste vette ripetano: Ta da leban, ta da leban vivano, vivano usarne starche Sounjar ‘un pergan . i nostri forti Alpini.

In appendice il libro già citato, scritto per onorare la memoria dell’insigne studioso, riporta la traduzione in italiano della parte grammaticale di “Taut6, puox tze Lirnan Reidan un Scraiban iz Gareida on Ljetzan”, dovuta alla meritevole fatica di Ermenegildo Bidese, Andrea Padovan, Alessandra Tomaselli. Così la grammatica cimbra di Cappelletti e Schweizer diventa utilissimo strumento per chi è interessato all’apprendimento di questo antico idioma, in pericolo di estinzione. Cercano di tenerlo in vita associazioni culturali come il Curatorium Cimbricum Veronense, presieduto da Vito Massalongo, e De Zimbar ‘un Ljetzan che raccoglie gli ultimi giazzarotti parlanti il cimbro. Già da tre anni Antonia Stringher, figlia di una cimbra doc, tiene un corso di tauc’ frequentato da una settantina di persone, in maggioranza giovani. All’Università della terza età parla di cultura cimbra e sparge “pillole” dell’interessante linguaggio. Il Curatorium, che distribuisce la rivista semestrale Tzimbar Cimbri, ha pubblicato un ponderoso dizionario comparato “Tauc’ – Belisch Cimbro-Italiano Belisch-Tauc’, Italiano Cimbro. Carlo Nordera ha fondato una casa editrice per stampare una parte degli studi del prof. Bruno Schweizer e ristampare opere di studiosi italiani, tedeschi e austriaci inerenti il taucias gareida.

Arnaldo Petterlini, già citato come curatore della pubblicazione uscita nel cinquantenario dalla morte di mons. Cappelletti, ha cercato invano la tesi che gli era valsa il premio internazionale conferitogli dall’Università di Bruxelles. I suoi interessi per gli aspetti logici della matematica, in particolare riferiti al concetto di numero, non sono stati compresi e valorizzati nell’ambito culturale veronese, mentre erano ampiamente dibattuti in quello europeo. Il Cappelletti non ha potuto compiutamente sviluppare un percorso di pura ricerca accademica, oberato com’era di compiti prettamente didattici.

Respiro internazionale di grande valore, anche teorico, hanno avuto i suoi lavori di linguistica che lo hanno messo in contatto con la comunità scientifica europea. Ricordiamo in particolare la collaborazione con il glottologo Bruno Schweizer. I suoi studi hanno interesse di carattere metodologico generale e, al contempo, costituiscono un riferimento fondamentale per quanti sono tuttora impegnati a mantenere in vita il più a lungo possibile l’antico idioma dei Cimbri. Meraviglia il fatto che un personaggio dotato di una mente così eccelsa che, per i suoi interessi teoretici tanto nel campo matematico che in quello linguistico avrebbe potuto trovarsi a suo agio in ambienti intellettuali come il Circolo di Vienna, sia rimasto sempre vicino alla gente semplice del suo paesello che ancora oggi, a sessant’anni dalla morte, lo ricorda con immutato affetto.

Un auspicio che Mons. Cappelletti aveva espresso a conclusione di una sua ultima fatica GLOSSARIO DEL TAUCIAS GAREIDA DEI TREDICI COMUNI VERONESI:

“Ta ditza altas gareida muzzat sterban,
lébabe sain gadénka ute puacharn”

“Se questo vetusto idioma è destinato a scomparire,
viva almeno il suo ricordo sui libri”

 

 

 

Aulo Crisma: La scelta della povertà

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Edito dall’ Associazione Rete Guinea Bissau Onlus nel febbraio scorso, “La scelta della povertà” è il “Diario di un Missionario laico in Guinea Bissau”, Vittorio Romano Bicego, morto vent’anni fa. Aveva un posto sicuro e ben retribuito al Lanificio Marzotto di Valdagno. Nel dicembre del 1978 , durante le ferie, si reca per una visita a Cumura, in Guinea Bissau, alla missione dei Minori Francescani di Chiampo, dove c’è un frate suo parente. Prima di partire dice al vescovo mons. Ferrazzetta che gli piacerebbe lavorare nella Missione. Ritornato in Italia fa domanda di aspettativa per tre anni, sicuro di non ottenerla. Invece la ottiene e, quasi con rammarico, va incontro ad un destino che gli cambia completamente la vita, che gli riserva abbondanza di rinunce, sacrifici, sofferenze e lavori. Sì, tanti lavori: manovale, muratore, ingegnere, autista, meccanico, agronomo, agricoltore, infermiere, ostetrico, cacciatore, pescatore, cuoco, barbiere, insegnante… Un factotum, prezioso collaboratore del vescovo Settimio Ferrazzetta, un montanaro di Selva di Progno, nel Veronese, di non eccelsa costituzione fisica ma di forte carattere.

La narrazione va dalla partenza dall’Italia nel novembre 1979 al dicembre 1980. Un susseguirsi di giornate tutte diverse una dall’altra. Spostamenti in varie zone, anche molto distanti, a preparare il materiale per costruire nuove missioni, a reperire il cemento, a scavare pozzi. E dopo una massacrante fatica sotto il sole con temperature di 60 gradi c’è da curare i malati, specialmente bambini, che sempre più numerosi si rivolgono a Vittorio. Il gigante buono, oltre all’italiano parla francese, inglese, portoghese, che è la lingua ufficiale, criolo, che è la lingua parlata dal 44% della popolazione, nonché balanta e fula, lingue di altri gruppi etnici.

E’ sempre pronto ad aiutare gli altri, anche se lui stesso talvolta avrebbe bisogno di aiuto quando gli sembra di non essere in grado di reggere la fatica o di sopportare i malanni fisici spesso dovuti al clima o semplicemente alla puntura di fastidiosi insetti. Un giorno, ma questo non è scritto nel suo diario, ha strappato un bambino dalle spire di un serpente. Trascorsi i tre anni di aspettativa ne ottiene altri tre dal Conte Marzotto. Dai brevi cenni biografici riportati dal libro vediamo Vittorio che l’11 marzo 1985 arriva nel Sud del Paese, in una zona ricoperta dalla foresta tropicale e scarsamente popolata, per dare inizio ad un’opera di ampio respiro: creare un’azienda agricola modello per la produzione di cajù, anacardi.

La chiamerà “Sao Francisco da Floresta”. Molti ragazzi sono mandati in Italia a studiare, a imparare mestieri. I raccoglitori diventano coltivatori, preparano i vivai, potano le piante, trattano i frutti. Una volta venivano ceduti a mercanti indiani in cambio di un po’ di riso. Vittorio dimostra agli indigeni che la terra produce se la si coltiva. La sua iniziativa è supportata generosamente dai gruppi di volontari di Alpo, Caldiero, Selva di Progno, Valdagno e Vallalta, Cividale del Friuli, Caneva di Sacile, Sossano, Vittorio Veneto che, oltre alla raccolta di fondi e materiali da inviare in Guinea Bissau, vi si recano a lavorare come operai specializzati nel periodo delle loro ferie. Vittorio Bicego muore il 23 gennaio 1998 nell’ospedale di Negrar (Verona), stroncato da herpes malarico tropicale all’età di 55 anni, dopo diciotto anni dedicati ai più bisognosi senza risparmiarsi. Ha dato tutto sé stesso per migliorare le condizioni di vita dei guineani, perché camminassero con le loro gambe sulla strada della emancipazione dalla miseria. Ha lasciato viva e vegeta la sua creatura, l’Azienda Agricola, ormai prossima all’autosufficienza economica, che si distende su 2.000 ettari con 200 ettari coltivati a cajù di ottima qualità, anche perché vengono raccolti nel periodo asciutto e non in quello delle piogge come in altre zone del mondo. Altri dati possiamo desumere dalla pubblicazione. 20 sono i lavoratori fissi in agricoltura, circa 150 gli stagionali (da febbraio a maggio) per la raccolta della castagna. Da 35 a 70 sono gli impiegati in fabbrica per la trasformazione del prodotto da luglio a gennaio. Beneficiari diretti del progetto sono i lavoratori dell’Azienda che coprono circa 200 famiglie.

Tutte le famiglie residenti nell’area beneficiano inoltre dei servizi generali che l’azienda ha ottenuto dalle autorità pubbliche. Fonte principale di rendita è la commercializzazione dell’anacardo che la “Cooperativa Tabanka” di Verona importa in Italia e ne cura la vendita. Sull’esempio della coltivazione dell’anacardo è in via di sviluppo quella dei frutti di baobab, estremamente interessanti per la ricchezza dei loro contenuti, non solo nutritivi. L’opera di Vittorio Bicego continua.

Aulo Crisma: I lupi sui Lessini

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I Monti Lessini si stendono come un ventaglio aperto a Nord di Verona. Verso la fine del Milleduecento vi si stabilirono dei coloni tedeschi provenienti dalla Baviera. Il vescovo Bartolomeo della Scala aveva concesso loro di insediarsi sul vasto territorio, che allora era coperto dalla boscaglia. I Cimbri, così sono stati definiti i nuovi venuti, nel corso dei secoli sradicarono gli alberi per ricavare i pascoli per allevare in un primo tempo ovini e in seguito bovini. Diedero vita ai Tredici Comuni Veronesi della Montagna Alta del Carbon, così definita nell’epoca della Serenissima. Parlavano il taucias gareida, un antico idioma alto tedesco, che è stato, ed è ancora, oggetto di studio di glottologi austriaci, germanici e italiani. Giazza, un paesino dell’alta Val d’Illasi, è stata l’ultima deutsche Sprahe Insel, isola della lingua tedesca, tuttora viva nella bocca degli ultimi discendenti dei coloni Zimbar.

Sui Lessini nella stagione estiva pascolano circa 7.000 vacche sparse nelle oltre due centinaia di malghe. Fino a dieci anni fa brucavano tranquille in santa pace l’erba profumata della montagna. E tranquilli erano i malghesi, che un tempo erano stanziali e il latte veniva lavorato in ogni baito, che comprendeva l’alloggio, quasi sempre nello stesso spazio in cui si produceva il formaggio, e la casara, disposta sul lato nord, perciò più fresca, dove venivano conservati il latte e i formaggi.

Ma ecco che arriva dai Balcani un lupo clandestino provvisto di collare. Un lupo sui Lessini! La notizia si sparge in Mezza Europa. E poi arriva anche una lupa. Gli animalisti vanno in brodo di giuggiole. Gli antichi Cimbri sicuramente conoscevano il lupo che per loro era il Bolf (Wolf per i Tedeschi). Ma nei tempi più recenti il lupo non era di casa sulla montagna veronese. Da un documento dell’archivio comunale di Selva di Progno si ha questa notizia: Nel 1817 “nella Selva così detta Perchiof” viene scoperto un lupo che sbrana una pecora e una capra. La fiera viene uccisa. La Deputazione Comunale partecipa alla R: Cancelleria di Badia Calavena l’uccisione di un lupo in questo comune, e “fa conoscere la lusinga degli uccisori di ottenere un premio”.

Oggi nessuno si lusingherebbe di ricevere un premio per l’uccisione di un lupo. Verrebbe immantinente sanzionato. Invece il lupo che uccide pecore, agnelli, giovenche innocenti non viene punito dalla legge. Anzi, è considerato non colpevole. Addirittura protetto. Speriamo non sia anche applaudito, dicono gli allevatori e i montanari della Lessinia.

Non basta ricevere un indennizzo dalla Regione o contributi per predisporre recinzioni, spesso non fattibili. Inutili si sono rivelate quelle approntate, perché i predatori scavano un passaggio sotto la rete e giungono inesorabili alla preda. Alcuni malghesi hanno … assoldato pastori maremmani per difendere le loro bestie. I grossi cani sono efficienti ma, dicono i turisti che attraversano la montagna, pericolosi per l’uomo. In una decina di anni nella Lessinia i lupi si sono moltiplicati.

Qualcuno parla di centocinquanta capi che hanno allargato il territorio di caccia nelle province limitrofe. Nei giorni scorsi sono scesi fino al fondo della valle a Selva di Progno.

In una contrada, violato il recinto, hanno azzannato due pecore. In un’altra contrada, verso le sei del mattino, sono penetrati nel giardino di una casa all’inizio del paese dove quattro agnelli di una pregiata razza autoctona, allevati per la riproduzione, avevano il compito di brucare l’erba. Ne hanno sgozzato tre. Forse fuggiti perché arrivava della gente per salire sulla corriera alla vicina fermata, sono stati costretti a risparmiare il quarto. Il fatto è avvenuto sul limitare inferiore della boscaglia del Perchiof (nome di derivazione cimbra nel significato di terreno selvatico dell’orso), nella quale duecento anni prima era stato ucciso il lupo nominato prima. Il proprietario degli agnelli non è sicuro di ricevere l’indennizzo.

Nel Libro dei simboli si legge che Marte aveva per compagni i lupi e pure Odino ne aveva due robusti: Geri e Freki. Anche gli allevatori hanno la compagnia, non desiderata, dei lupi. Potranno un giorno esserne liberati?

 

Aulo Crisma: Soldati al fronte. I caduti della Lessinia

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SOLDATI AL FRONTE – I CADUTI DELLA LESSINIA

Il Curatorium Cimbricum Veronense, la benemerita associazione veronese che si occupa della cultura e dell’idioma dei Cimbri dei Monti Lessini, con un numero speciale della sua rivista CIMBRI/TZIMBAR ha voluto contribuire alla commemorazione della Grande Guerra pubblicando una ricerca di Angelo Andreis sui Caduti della Lessinia a cento anni dalla fine del primo conflitto mondiale.

Il territorio che si estende come un ventaglio a nord di Verona tra la Val Lagarina e quella del Chiampo è stato colonizzato, a partire dalla fine del Milleduecento, da una popolazione tedesca proveniente in gran parte dalla Baviera che nel corso dei secoli ha perduto il suo antico idioma, rimasto impigliato nei toponomi. La lingua è rimasta viva soltanto nell’enclave di Giazza. Ma tutti i Cimbri, compresi quelli di Giazza, si sentivano italiani e hanno risposto, sicuramente senza entusiasmo, alla chiamata alle armi. E molti avranno fatto fatica a capire perché diventavano nemici quelli che abitavano oltre il confine, parlavano la loro stessa lingua e fino al giorno prima erano stati compagni di affari nel contrabbando.

Tra i richiamati di Giazza, i più cimbri dei cimbri, non si è verificato nessun caso di diserzione. I sindaci dei Comuni erano prodighi nel rilasciare dichiarazioni al fine di far ottenere una licenza per la mietitura ai soldati al fronte. Ma più del sindaco era il maresciallo dei Carabinieri ad avere voce in capitolo. Una voce quasi sempre ostile.

Dopo le presentazioni di Vito Massalongo, presidente del Curatorium e di Luciano Bertagnoli, presidente dell’Associazione Alpini di Verona, l’ Autore nell’introduzione sottolinea l’aspetto negativo della prima guerra mondiale, “nefasto per le enormi perdite di vite umane soprattutto giovani ma anche confortante per il compimento del progetto risorgimentale di unire territorialmente l’Italia”.

Poi, nei cenni storici, ricorda la vita di sofferenze in trincea, gli assalti, le undici battaglie dell’Isonzo, la disfatta di Caporetto e la resistenza sul Piave. Un capitolo elenca i sacrari militari. Un altro parla della Lessinia e la Grande Guerra. La Lessinia era considerata zona di guerra. Ma non si ebbero mai azioni militari. Gli abitanti di Giazza ricordavano la visita del re Vittorio Emanuele III nella conca di Campobrun. I soldati che hanno avuto la fortuna di ritornare in seno alle famiglie hanno voluto ricordare i compagni morti incidendone nel marmo i nomi a perenne memoria del loro sacrificio. Le amministrazioni comunali e la popolazione contribuivano all’erezione del manufatto commemorativo. Così anche nella Lessinia ogni Comune, ogni paese, anche il più piccolo, ha il suo monumento ai Caduti. Ma Angelo Andreis non si è limitato a trasferire i nomi dei soldati dalla pietra alla carta stampata. Ad ogni nome ha aggiunto note biografiche desunte dai ruoli matricolari giacenti presso gli archivi di Stato di Verona e di Vicenza e dagli atti di morte degli uffici di stato civile dei vari Comuni.

Ecco allora che di ogni Caduto è rivelata la fisionomia: quanto è alto, il colore degli occhi e dei capelli, il colorito. Vengono indicati il Comune e la data di nascita, i genitori, la professione e il grado di cultura, il percorso militare dall’arruolamento alla morte. Dietro ogni nome c’è una persona costretta a staccarsi dalla famiglia, dagli affetti, dalla casa per andare a immolarsi sul fronte di guerra.

Dai dodici Comuni della Lessinia, che nel 1911 contavano 33.661 abitanti, non fecero ritorno 1.122 soldati, oltre due terzi dei quali erano sotto i trent’anni di età. Nel sacrario di Redipuglia tra i Caduti noti riposa la salma di Cappelletti Andrea di Giazza, “di Giorgio e Santa Perlati nacque a Selva di Progno il 9 maggio 1895. Mugnaio di professione, alto un metro e 65, di colorito roseo con capelli biondi ondati e occhi grigi, venne arruolato il 3 febbraio 1915 nel 13° Reggimento Fanteria. Giunto il 24 maggio 1915 in territorio dichiarato in stato di guerra, trovò la morte un anno dopo, il 22 maggio 1916, in combattimento (scoppio di granata) alle Cave di Selz”. In molti paesi sono stati i parroci a far erigere il monumento ai Caduti.

Nei primi anni Cinquanta il parroco di Giazza si fece fare dei progetti da architetti e geometri di sua conoscenza. Scelse quello abbozzato da uno che non era né geometra né architetto. Sulla pianta di un esagono inscritto in un’ellisse si alzavano su tre lati blocchi squadrati e bocciardati di giallo reale proveniente dalle cave di Campofontana. Sul blocco centrale, munito anche di un trogolo, fu posato un masso roccioso sormontato da un’aquila in ferro battuto, opera dello scultore Berto da Cogollo. Dal masso sporgeva un tubo dal quale sgorgava un getto continuo d’acqua che voleva significare il ricordo sempre vivo dei Caduti e nello stesso tempo sostituiva il tubo precedente che si alzava da terra della fontana cui attingevano gli abitanti della piazza. Gli altri tre lati dell’esagono erano costituiti dai profili in marmo a livello del terreno. Il pavimento era di scaglie di grigioperla della cava locale. La costruzione del museo etnografico di Giazza, che venne ad occupare l’area del monumento, portò allo spostamento dello stesso a ridosso del muro della cappellina di fianco alla chiesa, modificandone però l’architettura.


Aulo Crisma: Storia di Giazza e la sua gente

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STORIA DI GIAZZA E LA SUA GENTE

“Storia di Giazza e la sua gente” è la seconda edizione aggiornata del libro di Antonia Stringher del 2010, che testimonia il grande amore dell’autrice per il paese natale di sua madre, Rosa Dal Bosco, grande figura di cimbra orgogliosa della sua terra e perfetta interprete del Taucias gareida, l’antico idioma tedesco portato dai coloni bavaresi sui Monti Lessini verso la fine del 1200 e sopravvissuto quasi intatto fino ai nostri giorni sulla bocca degli abitanti del paesello incastonato tra i monti dell’alta Val d’Illasi, in provincia di Verona. Antonia Stringher ha svolto un accurato lavoro di ricerca negli archivi, ha letto una grande quantità di libri (basta scorrere la bibliografia), ha raccolto un’infinità di testimonianze e soprattutto ha camminato in lungo e in largo, in alto e in basso per tutta la vasta zona intorno a Giazza, toccando tutte le 27 contrade, alcune non più abitate e raggiungibili solo attraverso impervi sentieri. Si è soffermata in centinaia di luoghi, accompagnata da valenti collaboratori del posto, per valutare il significato dei toponomi , in maggioranza di origine cimbra, spesso legato alle caratteristiche del territorio. E si è tuffata a capofitto nello skljumpf della parlata teutonica assorbendo come una spugna ogni stilla del vecchio linguaggio per farlo scorrere nei corsi di cimbro che tiene di anno in anno, coadiuvata dagli ultimi parlanti, per mantenerlo in vita il più a lungo possibile. Sulla copertina la luminosa foto a colori del nucleo centrale del paese, con in mezzo la chiesa affiancata da un insolito campanile sormontato da una calotta di banda, giustifica l’interpretazione del nome cimbro Ljetzan che fa diventare Giazza splendente, perché nella parola è contenuta la voce sassone light, che significa luce. E splendide sono le pagine del volume illustrate dalle innumerevoli foto a colori, in gran parte scattate dall’autrice. Preziosa la raccolta di foto d’epoca . Il libro di Antonia Stringher “è dedicato agli abitanti di Giazza, a chi da Giazza è emigrato e a quelli che Giazza la amano”. Ma può essere letto con piacere anche da quelli che non conoscono Giazza, per scoprire un mondo rimasto quasi sconosciuto fino alla metà del 1900, con una popolazione che, pur ridotta di numero, si esprime ancora nell’antico idioma degli antenati immigrati dalla Germania verso la fine del 1200. Nell’excursus storico sono indicate le varie ipotesi sull’origine dei Cimbri, compresa quella che nei secoli scorsi li faceva discendere dai resti dei Cimbri provenienti dallo Jutland sconfitti dal console Caio Mario ai Campi Raudi nel 101 a.C.

E vien fatto cenno dei recenti studi dello storico Marco Pasa, che parla di movimenti stagionali sui monti veronesi di genti e bestiame addirittura in epoca romana. E poi i fondamentali studi del glottologo bavarese Bruno Schweizer provano che nel mare magnum del taucias gareida galleggiano numerosi relitti del linguaggio longobardo. E ciò induce a pensare che prima dei coloni germanici sui Lessini ci fossero i Longobardi. Dello stesso avviso era anche il germanista dell’Università di Milano Marco Scovazzi, interessato a cogliere le peculiarità della lingua e le caratteristiche culturali di una popolazione che, nei tempi andati, sapeva contare fino al quattro e per indicare il cinque ricorreva alla mano. E la mano serviva per i multipli di cinque fino al venti. Il pastore incideva un bastone per contare le sue pecore: una tacca per ogni capo. Eppure tra la gente di Giazza, verso la fine dell’Ottocento, è nato un bambino che sarebbe diventato un matematico di statura europea: mons. Giuseppe Cappelletti. E’ ricordato nel capitolo dedicato ai personaggi anche per gli approfonditi studi sulla sua lingua materna. Un suo nipote, il maestro Antonio Fabbris, nel 1939 costruisce una minuscola centrale idroelettrica che dà luce al centro abitato e alla contrada Ferrazza. Ma tutta la gente si distingue per la multiforme laboriosità. Il boscaiolo, all’occorrenza, diventa calcarotto, il muratore falegname e viceversa. Il mandriano è anche contadino. Le donne di casa, instancabili massaie, possono vendere le uova eccedenti il consumo familiare e disporre del ricavato per le piccole spese.

Nel capitolo “Le donne e i cimbri” sono descritte come subordinate all’autorità del marito, ma è riconosciuta l’importanza del loro ruolo: “De baip ist drai kantaun ‘ume hause” (La donna è tre angoli della casa). La religiosità dei Cimbri era manifestata nella partecipazione massiccia alle sacre funzioni che, oltre alla santa messa, comprendevano il vespero pomeridiano domenicale e le processioni lungo l’anno. Nelle famiglie si recitavano le orazioni al mattino e alla sera e prima del pasto si ringraziava Dio per il cibo che era sulla tavola. Gli si rivolgevano chiamandolo sempre Guttar Heare, Buon Signore. Tra le preghiere riportate è interessante per l’originalità quella cimbra che l’autrice ha udito dalla bocca della madre: Gapet ‘un drai engiljar, Preghiera dei tre angeli.

Haint i gea nidar suaze 

pit drai engiljar in de vuaze:

 uanz deika-pi 

uanz darbeika-pi

uanz vuata-pi 

‘un aljan poasan dingar 

‘un aljan poasan troman 

funtze am liebe lieste tak. 

 

Stasera vado a letto dolcemente

con tre angioletti ai piedi:

uno mi copre

uno mi sveglia

uno mi protegge

da tutte le cattive cose

da tutti i brutti sogni

fino al caro luminoso giorno.

Nella religiosità cimbra persistevano credenze pagane sull’esistenza di figure spesso riconducibili alla mitologia germanica. Di Giazza, del suo territorio e dei suoi abitanti viene detto tutto con semplicità di linguaggio, con continui interessanti riferimenti ai tempi passati. Nei secoli scorsi la ricchezza dell’acqua faceva girare le ruote di otto mulini, due magli, due segherie e, dal 1939, la turbina della piccola centrale elettrica. Oggi non c’è più nulla di tutto questo e gran parte dell’acqua delle valli di Revolto e di Fraselle è stata intubata nell’acquedotto che serve la Val d’Illasi. Ma Giazza, anche se ha perso gran parte della sua gente, è ancora lì, splendente quando il sole la bacia. Visitatela e leggete le belle pagine che Antonia Stringher le ha dedicato con appassionata attenzione.

Storia di Giazza e la sua gente, edito da La Grafica Editrice di Lavagno (Verona), € 23, si può trovare su Amazon, presso l’Editore, alla libreria Gheduzzi di Verona, nelle librerie e ristoranti della Lessinia

Aulo Crisma: Bandiera Verde Legambiente premia Nello e Giorgio Boschi, ultimi e forse unici carbonai dei Monti Lessini

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Legambiente assegna bandiere blu alle spiagge che hanno una attestata qualità del mare. Attraverso la Campagna Carovana delle Alpi, nata nel 2002 per difendere e promuovere il territorio alpino, concede la bandiera verde a pratiche innovative ed esperienze di qualità ambientale e culturale dei territori montani.

Delle 17 bandiere verdi distribuite nel 2019 ben due vanno ai Monti Lessini, in provincia di Verona. I Cimbri, così erano indicati i coloni tedeschi provenienti dalla Baviera, verso la fine del 1200 si stabilirono su quel vasto altopiano a nord della città scaligera che, allora, era coperto in gran parte da grandi selve. Con il passare dei secoli crescono di numero i coloni e crescono di conseguenza i bisogni alimentari. E’ necessario trovare altra terra da mettere a coltura e aumentare sempre più la superficie dei pascoli. Lo si fa a spese dei boschi. In tutto il territorio del Vicariatus montanearum Theotonicorum (Vicariato delle montagne dei Tedeschi, come era denominato nei documenti a partire dal 1403, si procede alacremente a boscheggiare e carboneggiare. Tale pratica è così diffusa che in seguito l’altopiano viene indicato come Montagna alta del carbon o Montagna del carbon nel periodo della dominazione di Venezia. La città ha fame di carbone. Lo utilizza nei fornelli delle case per cuocere i cibi, nelle fucine dei fabbri e dei maniscalchi, nei ferri da stiro delle massaie, che sono le più esigenti, non tollerando che qualche pezzettino di carbone mal cotto si mettesse a fumare.

Dalla montagna si alzano al cielo innumerevoli fili di fumo. Si carbonizza per parecchi mesi nel corso dell’anno. Per soddisfare le richieste. Nel susseguirsi delle dominazioni, da quella scaligera, alla viscontea, alla veneziana, all’austriaca e infine italiana, le autorità sono attente alla salvaguardia dei boschi ed emanano ordinanze e divieti sul funzionamento delle carbonaie e fissano tasse di concessione. La produzione di carbone dalla legna è ritenuta ancora importante, come testimonia una richiesta della Regia Prefettura di Verona del 17 aprile 1918 che invita il sindaco di Selva di Progno a fornire l’elenco dei soldati che di mestiere fanno i carbonai per l’esonero in relazione all’ordinanza del Commissario Generale Combustibili. Dopo la fine della grande guerra in Lessinia vanno scomparendo le carbonaie. Resistono un po’ più a lungo nella zona di Giazza, frazione di Selva di Progno, fino all’inizio della seconda guerra mondiale. Ma a Giazza, Ljetzan in cimbro, caratteristico paesello che sorge alla confluenza delle valli di Revolto e Fraselle in quella d’Illasi, Nello Boschi (omen nomen) ha un ristorante. Potrebbe comperare la carbonella già pronta per le sue grigliate. Invece no. Vuole produrla da sé. Nel maggio del !980 nel cielo di Giazza ricompare un nuovo filo di fumo,che si alza timidamente dai Teldari, a pochi passi dal cimitero.

Con l’aiuto di Romano Nordera e Augusto Ravaro, che non avevano dimenticato l’antico mestiere, anche se l’ultima loro carbonaia risaliva ad oltre quarant’anni prima, Nello rimette in moto l’antica arte del “carboneggiare”. Dal 1980 ogni anno a maggio ai Teldari affluiscono tanti spettatori per assistere ad un avvenimento diventato suggestivo, non solo per la sua rarità. Il momento dell’accensione ha l’aspetto di una cerimonia religiosa. Nello, non smentendo le concezioni religiose dei cimbri, che spesso sono intrecciate a radicatissime credenze precristiane, traccia il segno della croce con il badile prima di introdurre le braci nel camino ricavato al centro della catasta di legna a forma conica con calotta semisferica e ricoperta di terriccio e foglie. Intorno alla base vengono collocati i codeghi, zolle erbose per impedire anche la minima penetrazione dell’aria. Le badilate di braci sono di numero dispari: tre o cinque. Sopra le braci sono fatti cadere i gnochi , pezzetti di legna verde di pochi centrimetri. A mano a mano che gli gnochi prendono fuoco, se ne aggiungono altri fino alla fine del camino, che viene turato con i codeghi . La lenta combustione nella carbonaia inizia dall’alto. Si propagherà poi lentamente in basso. A questo punto vengono praticati dei fori con un bastone appuntito tutto intorno alla carbonara cominciando dall’alto.

Sembra di assistere al lavoro del “picador”. Ma qui la bestia è immobile seppur viva, poiché dalle numerose narici del mostro scuro fuma il suo …spirto indomito: sono getti di fumo bianco, il vapore acqueo che si libera dalla legna verde. Quando l’occhio esperto del carbonaio vede che dagli sfiati il fumo da bianco esce azzurrino bisogna tapparli lestamente perché la legna comincia a carbonizzare.. Dall’introduzione delle braci al riempimento del camino e all’uscita del primo fumo sono trascorse dodici ore. Nel frattempo la signora Mariuccia, moglie di Nello, ha avuto tutto il tempo di preparare generose moke di caffè, affettare il salame, tagliare il formaggio, aprire le bottiglie di vino per offrire a tutti una abbondante colazione in perfetto stile cimbro. Anche Nello s’è preso il tempo di addentare qualche fetta di salame accompagnata dalla polenta calda appena tolta dalla graticola, che mangiata così sembra il cibo più buono al mondo. Non ha distolto però, neanche per un istante, la sua vigile attenzione dall’andamento della sua carbonaia.

Occorrono complessivamente 72 ore di lenta combustione anaerobica, senza aria, sorvegliata costantemente giorno e notte, intervenendo a tappare i fori di sfiato dall’alto al basso non appena cessa la fuoruscita del vapore acqueo. Quando non esce più fumo, neanche dai fori più bassi,la legna è tutta carbonizzata. Si può procedere allo scoprimento della carbonaia, che un po’ alla volta è franata su sé stessa diminuendo di volume: l’animale prima fremente di vita ora è crollato al suolo. Le sue ossa nere, la legna carbonizzata, vengono separate dal terriccio. Se al contatto dell’aria qualche pezzo ha l’ardire di ardere accendendosi rabbiosamente di rosso, ci pensa Nello a placarlo investendolo con una secchiata di acqua. Un ceramista di Cazzano di Tramigna una volta ha insegnato ai ragazzi della scuola media di Selva a produrre piccoli oggetti con la creta. Insieme con alcuni vasetti del ceramista sono stati messi a cuocere nella carbonaia. Dopo lo spegnimento hanno potuto raccogliere, felici, gli oggetti che nella cottura avevano assunto un colore grigio lucente. Hanno ripetuto un’esperienza simile a quella del bucchero che risale, dice il ceramista, agli antichi Etruschi. La collaborazione tra carbonaio e ceramista è continuata anche in seguito. Il figlio di Nello, Giorgio, ottimo cuoco, ha già imparato a produrre il carbone. Grazie a loro, ormai da quasi quarant’anni, a maggio rivive a Giazza una attività diffusissima nei tempi andati su tutta la Montagna alta del carbon. Attività che, per il suo valore culturale, ha meritato il riconoscimento di Legambiente.

Gran parte di questa narrazione è desunta dall’opuscolo LA CARBONARA di Aulo Crisma, edito nel 1999 dal Curatorium cimbricum Veronense, la benemerita associazione che studia e conserva le tradizioni e la cultura dei Tredici Comuni cimbri della Lessinia. Le foto e i disegni tratti dallo stesso opuscolo sono di Marzio Miliani.

Aulo Crisma: Legambiente premia Modesto Gugole per la transumanza

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LEGAMBIENTE PREMIA MODESTO GUGOLE PER LA TRANSUMANZA

Legambiente, con la campagna Carovana delle Alpi del 2019, ha assegnato 17 bandiere verdi per difendere e promuovere nei territori montani attività innovative ed esperienze di valore ambientale e culturale. Ben due delle 17 bandiere sono andate alla Lessinia, in provincia di Verona, in due piccoli paesi del Comune di Selva di Progno: Giazza, nel profondo della valle e Campofontana in alto sui monti. A Giazza per aver rimesso in vita l’antico mestiere della produzione del carbone e a Campofontana dove continua la pratica della transumanza.                                                                                                                                          

Campofontana sorge a oltre i milleduecento metri di quota nella parte più incantevole dei Lessini orientali con numerose contrade disseminate su un paesaggio mai aspro, mosso da continui avallamenti e dossi.. E’ il più alto della provincia. L’attività economica è costituita essenzialmente dall’allevamento delle mucche. Un tempo quasi ogni famiglia ne possedeva un branco più o meno numeroso. Ora il numero degli allevamenti è notevolmente diminuito. I pochi rimasti però si sono infoltiti, superando talvolta il centinaio di capi. E l’erba che cresce sugli estesi prati viene falciata, essiccata e trasportata nei fienili per l’alimentazione del bestiame quando rimane in loco. Verso la fine di maggio le mandrie abbandonano le stalle di residenza per raggiungere i pascoli estivi seguendo gli antichi itinerari. Vi rimarranno fino a San Michele. Qualche giorno prima della partenza vengono fatte uscire dalla stalla le giovenche non ancora abituate a camminare perché si sciolgano le gambe. Le vedi felici saltare sui prati, ignare della fatica che dovranno affrontare l’indomani. Le mucche di Modesto Gugole, che ha una moderna stalla alla contrada Sangiorgi, discendono, passando per la mulattiera dei Gauli, da oltre i milleduecento metri di Campofontana, ai 758 di Giazza, all’inizio della Val d’Illasi. Da qui risalgono, percorrendo la zigzagante ed aspra mulattiera delle Gozze, che è pure un tratto del sentiero europeo E 5, per trovarsi sull’altipiano. La mandria continua il cammino accompagnata dal tinnare dei campanacci che rompe il silenzio dell’aria. I campanacci, “de ciocan” nella lingua cimbra, pendono dal collo delle vacche più ambiziose di portarli, quelle che manifestano il carattere del leader. Così mi ha raccontato un vecchio allevatore. Dopo otto ore di marcia e venti chilometri nelle gambe la meta, la malga di Folignani di Cima, è finalmente raggiunta.                                                                                                                                                                           

Un altro allevatore di Campofontana, Lino Roncari, per arrivare ala malga delle Coe di Ala, sui Lessini orientali, deve percorrere dieci chilometri di più impiegando dodici ore. Qualche anno fa un canale televisivo di Verona ha ripreso la marcia di ritorno, dalle Coe di Ala alla contrada Roncari di Campofontana.                                                                                                                                            

Fanno ritorno in giugno alla malga di Campobrun, continuando il lavoro del nonno, dei giovani mandriani, i Peloso, anche questi di Campofontana. A Campobrun, meravigliosa conca nel territorio trentino delle Piccole Dolomiti, arrivano scendendo fino a Giazza passando per la mulattiera dei Gauli e risalendo per tutta la Valle di Revolto fino al Passo Pertica. Da qui alla malga resta poca strada. Le mucche vanno a pascolare fino a 1800 metri di quota e il loro latte lavorato nella malga dà un formaggio saporito che viene acquistato ancora fresco dai numerosi escursionisti che frequentano la zona. Durante la prima guerra mondiale è giunto fin quassù il re Vittorio Emanuele III in visita al fronte .                                                                                                                  

Ci sono mandriani nel Comune di Selva di Progno che, finita la stagione dei pascoli estivi, intraprendono una seconda transumanza spostando il bestiame nella pianura veronese per restarvi nelle altre stagioni dell’anno. 

Nella Lessinia, fino a sessanta anni fa, esistevano tante malghe, tra grandi, medie e piccole, quanti sono i giorni dell’anno. Vi erano ospitati cinquemila capi, provenienti dalle stalle del Veronese e del Mantovano. Nei primi anni del secolo scorso due migliaia di mucche arrivavano dal Vicentino, salendo da Recoaro e attraversando il passo della Lora scendevano nella valle di Revolto per poi inerpicarsi sul versante opposto e proseguire sull’altopiano. A Revolto,sul confine con l’Impero austroungarico, esisteva un’osteria. Una volta era stata chiusa dalle autorità perché il gestore era stato accusato di connivenza con i contrabbandieri. I sindaci di Recoaro e Selva di Progno ne hanno ottenuto la riapertura per il tempo della transumanza essendo l’unico posto di ristoro in mezzo a molte ore di cammino.                                                                                                                                              

Sulla strada tra San Bortolo delle Montagne e Campofontana, in località Zucchi, ci guarda altera una monumentale mucca scolpita nel giallo reale, pregiato marmo della zona, da Aldo Nardi di Chiampo. Qui, fino dieci anni fa, si teneva un raduno di allevatori di mucche della razza rendena. Gli esemplari, provenienti anche dal territorio vicentino, sfilavano in passerella. Una commissione premiava i capi più belli.                   

I Cimbri della Lessinia avevano una specie di devozione per la mucca che nei secoli, come una madre generosa, li ha aiutati a vivere. Due semplici fatterelli, che qui descrivo, sono indicatori dell’alta considerazione in cui era tenuto l’animale.  

 Nei primi anni Trenta del secolo scorso l’afta epizootica aveva colpito il bestiame all’alpeggio. Sull’altipiano spuntò un frate a spandere benedizioni in giro per le malghe. Bofonchiava formule incomprensibili concludendo però chiaramente dicendo: le vache. A queste parole i mandriani cadevano in ginocchio e lo gratificarono generosamente con burro e formaggio. Occorse un carro per il trasporto. Una donna di San Francesco di Roverè gli si rivolse per farsi confessare. Il frate le disse che al massimo poteva darle una benedizione come faceva per le vacche. Si sentì offesa e lo denunciò ai carabinieri che in seguito ad indagini scoprirono la sua vera identità: era un povero diavolo di Costeggiola con una famiglia numerosa. Per i mandriani, che il frate fosse vero o falso non aveva alcuna importanza. Quello che contava era la cessazione del contagio. Si ha notizia che il pretore di Soave lo mandò assolto.                                                                    

Dal secondo aneddoto, raccontatomi da Rosa Dal Bosco di Giazza, grande conoscitrice dell’idioma tedesco, risulta che una mucca era considerata più di un uomo. Il disegno di seguito riprodotto è opera di un fanciullo di nove anni e illustra la conclusione di una transumanza dalle basse, dalla pianura a Giazza. Si propone il testo originale in cimbro, l’antico alto tedesco, la lingua un tempo diffusa sui monti Lessini.

       MINCAL UN SAINE BAIP

                                                    

         In Mincal ist gakeart ime lante pitan kuan.

         Saine baip, benje si hat gasest ken de kue,

         si ist kangat inkeigan in saine man

         un si hat gasest ch’er buat.

         -Ba het-ar Mincal ch’er buat?

         -Sbaigat. I pi gabest kame dotor.

         Er hat kout che i pi sìack un i han iz leban kourtz.              

         De baip hat kout: -Eh, maledetto! Er epar gamast vangan an kiouf!

         I han gakiobat che ist toat a kua.

 

                                                   MINCOLO E SUA MOGLIE

 

        Il Mincolo ritornava dalle basse con le vacche.

       Sua moglie, quando ha visto venire le vacche,

       è andata incontro al suo uomo

       e ha visto che piangeva.

       -Che cosa avete Mincolo che piangete?

       -Tacete. Sono stato dal dottore.

       Lui ha detto che sono ammalato e che ho la vita breve.

       La moglie ha detto: -Eh, Maledetto!

       Mi avete fatto prendere uno spavento!

       Ho creduto che fosse morta una vacca.

 

 

Per concludere voglio accennare alla transumanza di un solo animale dalla contrada Gioas di Giazza fino a Campolevà di Sopra. Ho aiutato la zia Albina a condurre una scrofa pregna fino alla malga dove nei giorni precedenti erano arrivate le mucche del Togneto. Non poteva unirsi alla mandria che aveva un passo molto più svelto. In montagna avrebbe partorito e sarebbe stata alimentata anche con la scotta, il buon siero del latte, “in kèsebazzar”, residuo della produzione del formaggio e della ricotta. Il viaggio è iniziato alle sei del mattino. L’andatura era lenta e sull’erta della mulattiera delle Gozze diventava ancora più difficoltosa. La bestia con le sue piccole zampe faceva quattro passi avanti e due indietro. Era più propensa a scendere che a salire. Si vedeva il grande sforzo al quale era sottoposta. Bisognava impedirle di retrocedere per evitarle il prolungamento della strada. Fuori della mulattiera, dai Parpari in avanti, la pendenza era più agevole. Dopo oltre sei ore di cammino per la scrofa e per noi la sofferenza era finita.

 

 

 

 

 

Tre anni fa ci lasciava Maria Dal Bosco

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Alle cinque della mattina del 26 settembre 2016 ci ha lasciati, a 95 anni, Maria Dal Bosco moglie di Aulo Crisma e madre di Amina Crisma collaboratori di “Inchiesta”.  La storia di Maria Dal Bosco è stata raccontata da Aulo Crisma in “Dieci anni con i Cimbri ”  (www.inchiestaonline.it “Osservatorio delle comunità montane” 8 aprile 2016) e da quella monografia è tratta l’immagine  di Maria Dal Bosco giovane maestrina di Giazza in bicicletta con i pensieri e i capelli al vento. La poesia scelta per ricordare Maria è quella di Wislawa Szymborska “La morte senza esagerare”. La poesia è stata scelta perché tutte le volte che la morte interviene lo fa nel modo maldestro ricordato dalla Szymborska ma soprattutto perché nella poesia si parla degli “attimi di immortalità” che Maria ha vissuto e fatto vivere a chi le stava vicino sempre con grande intensità. I funerali sono stati tenuti nel piccolo e accogliente cimitero di Giazza nel pomeriggio di mercoledì 28 settembre 2016.

 

 

Wislawa Szymborska, Sulla morte senza esagerare

 

Non s’intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.

Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.

Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.

Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.

Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!

A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più d’un bruco
la batte in velocità.

Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo ingrato lavoro.

La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.

I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.

Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.

Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.

La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.

Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

 

Wisława Szymborska

(Traduzione di Pietro Marchesani)

 

Marco Rostan: XVII Febbraio. I falò dei valdesi per una festa civile

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La redazione del primo numero di Inchiesta (gennaio 1971) aveva un solo raggruppamento politico, ideologico o religioso maggioritario ed era quello  delle amiche ed amici valdesi. Ringraziamo Marco Rostan peer avere aderito alla nostra richiesta di scriverci un pezzo su la festa dei falò.

La sera del 16 febbraio, chi si trovasse a percorrere , la strada che da Torino e Pinerolo si dirige verso le Valli Valdesi, potrebbe assistere alla progressiva comparsa, sulle colline circostanti, di tanti fuochi: sono i falò dei valdesi che ricordano quelli accesi nel 1848, per festeggiare la firma,da parte del re sabaudo Carlo Alberto, delle “Lettere Patenti”, con le quali ai sudditi valdesi – e anche agli ebrei – venivano concessi i diritti civili . Nulla era però innovato per quelli religiosi. Per ottenerli ci vorranno ancora molti anni, passando per Il Concordato ( la religione cattolica è l’unica religione di stato e gli altri culti sono soltanto tollerati , 1929 legge sui culti ammessi, mai abrogata) fino all’approvazione della Costituzione, che all’art.8 dichiara : « tutte le confessioni sono egualmente libere davanti alla legge…i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze ». Ma ancora altri anni dovranno passare , con infinite battaglie giuridiche, perché quell’articolo costituzionale venga finalmente attuato con la prima Intesa, fra la Repubblica italiana e le chiese valdesi e metodiste ( 1974).

Per tornare ai falò accesi nelle Valli Valdesi bisogna sottolineare che il XVII febbraio è una festa civile. Vi partecipa la popolazione , al di là delle differenze politiche e religiose, nelle fiaccolate serali verso i falò spuntano bandiere tricolori, al culto del 17 mattina i ragazzi distribuiscono coccarde e altre bandiere si affacciano da finestre e balconi, in particolare nei comuni di montagna. Al pranzo del 17, con la tradizionle souppa valdese , non manca il parroco , il maresciallo dei carabinieri e il discorso del sindaco.E si va avanti nel pomeriggio con rievocazioni storiche – oggi anche con i diritti degli immigrati o i corridoi umanitari o la violenza sulle donne, – fino alla sera , tradizionalmente dedicata al teatro ( una volta non mancava mai un bel drammone valdese, e, a concludere,una farsa per ridere un po’ dopo tanta “ serietà”). Tra gli inni cantati intorno al falò o al culto, il più conosciuto è il Giuramento di Sibaud, località vicino a Bobbio Pellice , dove, dopo 13 giorni di marcia da Ginevra, si concluse ,nel 1689,    la  “ Glorieuse Rentrée” dei Valdesi, già costretti all’esilio in Svizzera e Germania dal Duca di Savoia, che aveva deciso di seguire la politica di suo zio, re di Francia Luigi XIV, nei confronti degli ugonotti ( revoca dell’Editto di Nantes): o esilio o abiura.

Festa civile, dunque ,festa che in qualche modo si collega a quegli alberi della libertà della Rivoluzione francese, piantati anche nelle piazze dei comuni nelle Valli , festa laica perché in tutta questa dimensione di impegno civile, di lotta ai privilegi, per i diritti , contro le discriminazioni, il popolo valdese non dimentica la riconoscenza al Signore per la libertà ricevuta.

Questa libertà, prima che religiosa, è libertà di coscienza, quella affermata da colui che aveva dato inizio alla Riforma protestante (1517), Martin Lutero , il quale , davanti all’imperatore Carlo V dichiarò : « Se non sarò convinto mediante le testimonianza delle Scritture e chiare ragioni – dato che non credo né al papa né ai Concili da soli, poiché è evidente che hanno errato, e si contraddicono – io sono vinto nella mia coscienza e prigioniero della Parola di Dio a causa dei passi della Sacra Scrittura che ho addotti. Perciò non posso e non voglio ritrattarmi poiché non è sicuro né salutare fare alcunchè contro la coscienza ».

Dai falò siamo andati indietro, alla Rifoma. E possiamo ricordare anche Giordano Bruno, che proprio il 17 febbraio (del 1600), veniva bruciato sul rogo in Campo dei fiori a Roma. Nell’altra direzione cronologica, troviamo il Risorgimento e poi la Resistenza e la lotta dei partigiani per giustizia e libertà.

Quanto alla libertà religiosa oggi, moltissimo resta da fare e alcune volte da riconquistare. I problemi sono minori, ma difficili da risolvere. Pensiamo alla multiculturalità e multireligiosità crescenti in Europa e in Italia, alla difficoltà di applicare il sistema delle Intese con le più diverse confessioni o associazioni religiose, alla permanenza dell’ insegnamento cattolico nella scuola pubblica, alla galassia islamica, alle moschee, ai crocifissi e altri simboli religiosi …

Da tempo sono stati proposti e giacciono in Parlamento vari testi, con lo scopo di varare finalmente una legge di carattere generale sul tema della libertà di coscienza e di religione . Nessuno di questi testi fino a oggi è stato approvato. E la battaglia non è certo finita: l’impegno è di poter accendere ancora i falò della libertà, di gioia e riconoscenza. Non solo i valdesi .

 

 

Aulo Crisma: I Cimbri sono vivi

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I CIMBRI SONO VIVI

È uscito nel novembre dell’anno scorso, per le Edizioni Biblioteca dell’Immagine di Pordenone, il libro di Umberto Matino CIMBRI, vicende, cultura, folclore. L’autore racconta la storia dei coloni tedeschi giunti sui monti delle province di Vicenza, Verona e Trento a partire dagli anni intorno al Mille per arrivare ai discendenti dei giorni nostri. Provenivano dalla Baviera in più riprese e non avevano nulla a che fare con i Cimbri sconfitti dal console romano Gaio Mario nel 101 a.C., come raccontarono i letterati del 1300 e 1400. Tale leggenda fu sfatata dallo storico veronese Carlo Cipolla (1854-1916), che basò i suoi studi esclusivamente sui documenti.

Matino, che asserisce di non essere uno storico, descrive con ricchezza di informazioni il territorio colonizzato dai Cimbri, che è molto più vasto di quello riferito comunemente soltanto all’ altopiano di Asiago, ai Lessini e a Luserna. I nomi dei luoghi, considerati un tempo di passaggio tra i Sette Comuni dell’altopiano di Asiago e i Tredici Comuni dei Lessini, monti e valli, innumerevoli contrade e molti paesi, elencati con accuratezza e abbondanza, attestano la presenza stabile dei coloni thodeschi fino ai colli Berici. Tale presenza è confermata anche da una serie di documenti dal 1175 al 1216 che riguardano Bassano, Marostica, Folgaria, Posina, Lavarone, Caldonazzo. Altri documenti, degli anni 1224 e seguenti, informano che altri tedeschi vivevano nel territorio di Valdagno, in quelli di Schio e Santorso. Una nota (non bisogna trascurare di leggere le interessanti note a pié di pagina) parla del trasferimento, agli inizi dell’800, di alcune famiglie dall’Altopiano di Asiago a quello del Cansiglio, dando origine ad una nuova area cimbra.

E’ di fondamentale importanza il diploma, del vescovo di Verona Bartolomeo della Scala, del 1287, con il quale concede a due teutonici e ai loro soci provenienti dalla diocesi di Vicenza di stabilirsi sulle terre incolte e disabitate dei Lessini. La concessione aveva la durata di trent’anni rinnovabili. E sui Lessini, denominati anche “la montagna alta del carbon”, nel tempo cresce la popolazione cimbra che dà origine ai Tredici Comuni.

La lettura del testo è piacevole. Non mancano notazioni ironiche, come quella per dire che i Cimbri non si sono estinti, come non si sono estinti i neri d’America. Ma questi, a differenza dei discendenti dei coloni tedeschi, li distinguiamo per il colore della pelle, mentre quelli non sono dissimili dai vicentini, dei veronesi e trentini.

La storia dei Cimbri è inserita in quella più grande che si è svolta intorno a loro. La curiosità induce l’autore a vedere se i coloni, che avevano la facoltà di scegliersi il parroco tedesco, fossero stati lambiti dall’avvento del protestantesimo. Tale curiosità viene estesa all’arrivo del protestantesimo nel Veneto ed al singolare atteggiamento della Repubblica di Venezia nei suoi confronti. Poi il lettore sarà accompagnato a conoscere gli sviluppi più generali degli eventi che hanno toccato anche la gente dell’area germanofona e la diversificazione delle attività produttive, particolarmente nelle Valli dell’Astico, del Leogra e dell’Agno, dove inizia e si sviluppa l’industrializzazione. I discendenti dei Cimbri, che dai loro padri hanno ereditato lo spirito di sacrificio, la capacità di non arrendersi di fronte agli ostacoli e, come sottolinea l’autore, la “straordinaria cultura del lavoro”, fin dall’Ottocento hanno dato vita nelle valli vicentine ad una industria dei settori tessile, siderurgico e metalmeccanico. Vengono nominati moltissimi industriali di ascendenza cimbra, tra i quali i Rossi di Schio e i Marzotto di Valdagno, famosi non solo per le doti imprenditoriali, ma anche per avere introdotto il riformismo sociale a favore dei dipendenti.

Nell’ultima parte del libro Matino si occupa dei paesaggi, miti e folclore. E conclude, in appendice, con una serie di allegati che completano la sua fatica. Ha raccontato la storia dei Cimbri in modo avvincente e convincente.

25 aprile 2020, Aulo Crisma collaboratore di “Inchiesta” compie 93 anni

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Aulo Crisma, nostro collaboratore, compie 93 anni questo 25 aprile. AUGURI, AUGURI, AUGURI !

 

 

 

 


Aulo Crisma: 60 anni dopo

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Irene mi gira due foto pescate da Davide su facebook in cui compaio io, suo nonno , di sessant’anni fa.

Nella prima sono con un gruppetto di miei alunni della scuola elementare di Selva di Progno, in provincia di Verona. Siamo sui gradini della porta d’ingresso. Mi emoziono nel vedere i bei visetti che tutti riconosco subito. In prima fila, da sinistra a destra, ci sono Domenica Furlani, Giuseppina Corbellari, Edvige Battistel e Adriana Gaiga. Nella seconda sono affiancati Abramo Boschi, Luciano Furlani, Arcangelo Tornieri, Aldo Petterlini e Bruno Furlani, gemello di Luciano. La vecchia scuola, all’estremo nord del paese, costruita trent’anni prima in epoca fascista, comprendeva due aule divise da una saletta che fungeva da deposito della legna e del carbone. Stranamente, il lungo corridoio e la legnaia avevano il pavimento di piastrelle, mentre quello delle aule era di asfalto. Se per caso cadeva a terra un tizzone il pavimento cominciava ad ardere. Nemmeno il soffitto era del tutto sicuro. Hanno dovuto puntellarlo qua e là per evitare che qualche frammento di calcinaccio cadesse sulla testa degli scolari. Soltanto a metà degli anni Sessanta in un’altra zona venne costruito un nuovo grande edificio con cinque aule, una saletta per gli insegnanti, un’ampia aula magna, un locale adibito ad ambulatorio e servizi igienici dotati anche di docce. Nel seminterrato la cucina era adiacente ad un vasto refettorio.

Nella seconda foto sono con alcuni ragazzi del Centro di lettura, attori in una commedia. Abramo, è il primo a sinistra nella seconda fila. Gli altri attori sono i fratelli Aldo e Vito Gugole, Aldo Petterlini, Arcangelo Tornieri, Beniamino Rezzele. Né io né Abramo, che ha messo le foto su facebook, riusciamo a identificare un personaggio. Il Centro di lettura di Selva è uno dei tanti distribuiti in tutta l’Italia dal Ministero dell’ Istruzione Pubblica per contrastare l’analfabetismo di ritorno. Accolgo la proposta dei ragazzi di formare la filodrammatica. Quale migliore occasione per dare in mano un testo scritto a chi non leggeva più da quando aveva deposto l’ultimo sussidiario? Nel paese non c’è neanche l’ombra di un pur minuscolo teatrino.

Il Comune ci consente di costruire il palcoscenico in fondo al lungo corridoio della scuola largo tre metri. La Forestale ci regala un grosso abete che tagliamo nella foresta di Giazza e facciamo ridurre in assi e correntini nella segheria di Abramo Gugole che sfrutta l’acqua proveniente dai Fontani di Velo. Nella segheria lavorano anche i figli più grandi di Gugole, pur essi frequentatori del Centro. La loro prestazione è gratuita. Il palco ed i rudimentali sedili costituiti da bassi cavalletti ricavati dai conventini non ci costa nulla. L’unico esborso è quello per l’acquisto dei chiodi. La prima recita, I Martiri di Belfiore, avviene nel 1961, nel centenario dell’unità d’Italia. Nell’ultimo atto, nella scena quasi al buio, i condannati sono in attesa dell’esecuzione. Vittorino Gugole, con la tonaca prestata dal parroco, impersona don Enrico Tazzoli. E’ in piedi. Gli altri sono seduti sulla paglia che copre il pavimento. Il carceriere, Armando Cappelletti, fa dondolare l’orologio appeso alla catena davanti alle facce emaciate dei morituri e sussurra lugubremente: “E’ giunta l’ora…” Molti nel pubblico si mettono a piangere.

Aulo Crisma: Il cinema entra nella scuola

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IL CINEMA ENTRA NELLA SCUOLA

Era l’anno 1957. Le scuole elementari del Comune montano di Selva di Progno, in provincia di Verona, si dotarono di un proiettore cinematografico 16 mm. Tale costoso sussidio didattico ha una storia prima e dopo l’acquisto, particolarmente lunga dopo l’acquisto.

In quell’epoca funzionava il Patronato Scolastico, che forniva agli alunni bisognosi materiale di cancelleria. Nell’ Ente erano presenti rappresentanti degli insegnanti, dei genitori e del clero. Io ero segretario-direttore ed alle riunioni invitavo i miei colleghi delle frazioni che potevano contribuire alla programmazione del piano di assistenza. Infatti, un insegnante del capoluogo osservò che anche in montagna il tenore di vita era migliorato, che ogni famiglia aveva la possibilità di comperare quaderni, album, matite colorate e quant’altro occorreva ai propri figli. Perciò era meglio provvedere un sussidio didattico che servisse a tutte le scuole: un proiettore cinematografico. Il Patronato poteva disporre del contributo del Comune di 125.000 lire, quota obbligatoria di 50 lire per abitante.

Secondo i dati statistici dell’ultimo censimento nel Comune vivevano 2.500 persone. Oggi non arrivano a 1000. Dal Ministero arrivava qualche migliaio di lire. Tutti accettarono la proposta dell’acquisto. Il proiettore costava 330 mila lire. Altre 30 mila costava uno stabilizzatore, indispensabile per ovviare agli sbalzi della corrente prodotta dalle piccole centrali idroelettriche del capoluogo e della frazione di Giazza. Il parroco di Selva, che allora era presidente del Patronato, si occupò dell’acquisto. Era cliente della libreria Gheduzzi di Verona che vendeva anche arredi sacri. Il proprietario accettò l’acconto. Il saldo sarebbe venuto in seguito. Ne era garante il sacerdote. Le scuole del Comune di Selva di Progno possono disporre di un sussidio didattico che forse è unico in tutta la provincia. Ne usufruiscono pure gli abitanti del capoluogo e delle frazioni ove vengono proiettati i film noleggiati dalle Suore Paoline di Verona. In estate le proiezioni sono fatte all’aperto. I maestri del luogo sono sempre generosamente e disinteressatamente disponibili a fare gli operatori e a spostarsi da un paese all’altro.

A Giazza bisogna prelevare la corrente dai fili della linea aerea che passa davanti al poggiolo dell’aula del secondo piano. A Campofontana opera il giovane parroco che viene a prelevare le pellicole a casa mia. Un giorno, conosciuto il prezzo del noleggio, sbotta in un’espressione non troppo gentile all’indirizzo delle Paoline. Nel giro di tre anni viene saldato il debito. Così il venditore non ha più da farci altri solleciti. Ma salta fuori l’ispettore di zona della SIAE che ci invita a rispettare le regole se vogliamo continuare le proiezioni in pubblico. Da allora il proiettore è usato esclusivamente nelle scuole, non solamente in quelle del Comune. Il direttore didattico mi invita a proiettare un film in alcune scuole della Val d’Illasi. Dopo l’ultima proiezione mi consegna una lettera ed una scatola di cioccolatini per i miei figlioletti. Chiede perdono per aver loro sottratto il papà per una intera giornata. Anche il Centro di lettura di Selva, diventato CSEP, Centro Sociale di Educazione Permanente, utilizza il proiettore per il Cineforum.

Aulo Crisma: Parroci dei Lessini orientali

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                                                                Madonna della Lobbia a Campofontana- Selva di  Progno

 

                                                                                      Testimonianze della religiosità in Lessinia

 

PARROCI DEI LESSINI ORIENTALI

Don Giuseppe Padovani era il Parroco di Selva di Progno, in provincia di Verona, nell’alta Val d’illasi. Nel periodo dell’occupazione nazista dopo l’8 settembre 1943, si è prodigato sempre tenacemente per evitare l’internamento dei suoi parrocchiani in Germania. Qualche volta vi è riuscito. Nell’immediato dopoguerra si univa ai disoccupati che andavano a Verona per reclamare lavoro al Prefetto. Una volta si è sollevato la veste per mostrare i pantaloni da tedesco che aveva sotto. “Ecco com’è ridotto il parroco del capoluogo. Immagini la miseria degli altri.” Era un accanito fumatore di nazionali senza filtro. Nel suo piccolo studio la scrivania era stracolma di libri in ordine, si fa per dire, sparso. Un’aquila impagliata se ne stava tranquilla in un angolo sopra un trespolo incurante della nube che aleggiava nell’aria. Se fosse stata viva sarebbe morta affumicata. Le sue prediche erano piuttosto lunghe. Quando pensavi che la conclusione stava per venire aggiungeva altri periodi con codazzi di subordinate. Aveva retto la parrocchia per oltre trent’anni. Più volte erano giunte in curia delle lamentele per farlo trasferire. “Se volete che mi mandino via sbagliate sistema” diceva. “ Dovete parlare bene di me, perché mi assegnino una sede migliore.” Le suore orsoline dell’asilo parrocchiale preferivano confessarsi dal parroco di Badia Calavena che giungeva settimanalmente con il calesse trainato da una cavallina che legava all’inferriata della scuola materna accanto alla chiesa.

Anche alcune donne del paese approfittavano della presenza del prete di Badia per confessarsi. Successe una volta che l’animale, slegatosi, si incamminasse sulla via del ritorno. “Sior Ansiprete, la cavalina sta andando via”, comunicò un ragazzino al sacerdote che interruppe l’assoluzione per rincorrere la cavallina. Riassicuratala all’inferriata completò la benedizione. I colombi aumentati di numero danneggiavano il tetto della chiesa spostando le tegole. Allora arrivava a decimarli il parroco di Santa Trinità, piccola frazione del Comune di Badia appollaiata sul versante occidentale della valle, con il suo fucile da caccia.

Un progetto approvato dal ministero dei lavori pubblici era in corso di realizzazione. Si trattava di raccogliere l’acqua delle valli di Revolto e Fraselle, confluenti ai piedi di Giazza nel “progno” (torrente) della Val d’Illasi con una galleria di tre metri di diametro scavata in gran parte nella roccia. Più a valle il “vaio” laterale dei Taioli sarebbe stato sbarrato da una diga a gravità e l’acqua d’invaso sarebbe servita a far girare le turbine di una centrale elettrica. Molti già prevedevano uno sviluppo turistico attorno al laghetto che sarebbe nato nella zona di Santa Trinità. Tra loro c’era anche il prete cacciatore che diede inizio alla costruzione di una chiesa più grande. Ma i geologi (forse non erano gli stessi che avevano approvato il progetto) si accorsero che il terreno di natura carsica non era idoneo né al contenimento dell’acqua né a supportare la prevista diga. I chilometri di galleria che avevano sventrato la montagna restano a testimoniare lo sperpero di alcuni miliardi di lire. L’unico lato positivo è costituito dall’incontro di un operaio bellunese con una ragazza del posto conclusosi con il matrimonio. Il parroco di Santa Trinità diffondeva con l’altoparlante il sermoncino serale del mese mariano ai suoi fedeli e a quelli di Sprea in ascolto sul versante opposto della valle.

Il parroco di Selva viene ricordato per il suo impegno sociale. Nell’immediato dopoguerra non è facile trovare lavoro. Lo Stato istituisce i cantieri scuola per lenire la disoccupazione. Approfittando di una legge che finanziava il ripristino delle vecchie strade militari l’amministrazione comunale, su consiglio del parroco, provvide alla ricostruzione dello scomparso fondo stradale per unire il territorio di Velo Veronese a quello di Selva. La paga per gli operai è uno scarso sussidio, che viene integrato con il minestrone preparato nell’asilo parrocchiale e spedito a mezzogiorno via teleferica dal fondo valle. Un giorno il cuoco si è dimenticato di mettervi il sale. E’ facile immaginare le giaculatorie che gli hanno indirizzato gli operai e quelle del giorno dopo per il minestrone salato due volte.

Don Padovani era riuscito ad ottenere dal ministro Rumor, in giro elettorale per racimolare voti anche nelle località più emarginate della montagna veronese, un percussore meccanico per facilitare l’opera dei minatori. E, a strada ultimata, aveva convinto i consiglieri di Giazza ad asfaltare la Velo-Selva prima della loro Selva-Giazza, per la quale non sarebbe stato difficile ottenere in seguito il finanziamento. Il parroco, in tema di strade, sosteneva l’idea di costruire una galleria che mettesse in collegamento la Val d’Illasi, provincia di Verona, con la Val di Ronchi, provincia di Trento. Ha partecipato a tutti i convegni che riguardavano tale progetto, poi abbandonato. La Val d’Illasi ha evitato il pericolo di perdere la sua tranquillità di valle senza sbocco.

Ma don Padovani aveva in mente un altro progetto: costruire una strada che unisse il capoluogo con la frazione di San Bortolo senza passare per il territorio di Badia Calavena. I lavori sono incominciati per finire dopo appena qualche chilometro alla contrada Belvedere. Agli abitanti di San Bortolo bastava la vecchia strada che li faceva scendere a Sant’Andrea. Un altro problema che voleva risolvere ad ogni costo era quello di istituire la scuola media. Era sindaco del Comune il senatore e ministro delle finanze Giuseppe Trabucchi. Ogni volta che arrivava a Selva era sollecitato a sveltire le pratiche burocratiche presso il ministero competente. Dopo tante insistenze era stata approvata l’istituzione. La scuola media sarebbe stata ospitata presso il rinnovato asilo parrocchiale, da qualche anno chiuso per mancanza di bambini.

Don Giuseppe ha visitato le contrade della parte alta del Comune per convincere le famiglie a mandare a scuola i figli. Una madre non era convinta. “Mio figlio viene grande lo stesso” ha esclamato. “Anche il maiale che avete nel porcile viene grosso lo stesso” ha replicato prontamente il sacerdote.

Don Erminio Furlani era il parroco di Giazza, subentrato a don Domenico Mercante, trucidato ad Ala di Trento dai soldati delle SS in ritirata che lo avevano preso in ostaggio. La guerra era finita da pochi giorni. Con don Mercante, vittima innocente, morì anche il soldato tedesco, cattolico, che si era rifiutato di sparare al sacerdote. A Giazza, uno dei più poveri paesi della provincia, era ancora in vita il taucias gareida, l’antico idioma alto tedesco, un tempo diffuso su tutto il territorio dei Tredici Comuni della Lessinia. Anche qui è il parroco a darsi da fare per aiutare i suoi fedeli. Riesce a raccogliere, fuori dalla parrocchia, i soldi necessari per far funzionare una scuola materna nei locali della casa curatale dopo averla dotata di servizi igienici. E pensa di lenire la disoccupazione ottenendo, in seguito ad una lunga e ostinata pressione, l’istituzione di un cantiere scuola da parte del Genio Civile. Decine di allievi, sotto la guida dell’unico scalpellino del luogo, sbozzano migliaia di blocchi di pietra che provengono da una cava di Campofontana per sagomarli in conci adatti a formare il grande volto a copertura del torrente che proviene dalla Val Fraselle.

Giazza ha ora una grande piazza, anche se non proprio piana, dedicata poi al suo ideatore. Per don Erminio il maestro Fabbris, che non mancava di humor, aveva coniato la frase “Ego sum via”. I parrocchiani, più familiarmente, l’avevano soprannominato don Rondina, che rende bene il suo andare con la veste nera svolazzante a cercare aiuti per la sua gente. I parroci di Giazza e Selva, pur occupandosi del bene materiale dei fedeli, non trascurarono il loro ministero pastorale. Certamente non avrebbero potuto ripetere la frase di un loro confratello che al termine del suo incarico disse: “Signore, cavre (capre) mi hai dato e cavre ti rendo”.

Don Candido Celadon, già vicerettore del seminario diocesano, era stato “confinato” a San Bortolo delle Montagne. Era uno di quei preti troppo avanti rispetto alle gerarchie, ancora saldamente legate al pensiero preconcliare. Aveva portato una ventata di aria nuova, risvegliando, in particolare nei giovani, l’interesse per la politica, anche locale. Il segretario generale della Cassa di Risparmio di Verona, che in occasione delle feste natalizie si recava a visitare e a beneficare i poveri della parrocchia, gli fece ottenere in dono un pullmino per il trasporto dei bambini della scuola materna provenienti dalle numerose contrade disseminate nel vasto territorio montano. Per conoscere meglio l’opera di don Celadon, svolta con appassionato impegno non solo sul versante spirituale, lasciamo la parola ad un suo parrocchiano, Beniamino Gaiga, che lo ricorda con infinita gratitudine.

“Don Candido Celadon, destinato alla parrocchia di San Bortolo dalla Curia di Verona, vi giunge nell’estate del 1970 e vi rimane sino al 1976. Trova sui nostri monti una popolazione ricca di tradizioni cristiane ed una terra che ha saputo donare molte vocazioni sacerdotali e religiose. Tutto il popolo partecipa attivamente alla vita della comunità parrocchiale, tutti vivono nelle loro famiglie una vita profondamente cristiana. La vita stessa è scandita da importanti ricorrenze religiose. Il territorio presenta, numerosi segnali e testimonianze religiose: capitelli, croci, colonnette ecc… Quasi la totalità della popolazione vive di agricoltura, allevamento del bestiame, coltivazione dei prati, dei pascoli, taglio dei boschi e trasformazione del latte. I più giovani, proprio in questi anni, iniziano a scendere a valle (valle del Chiampo, valle d’Alpone e val d’Illasi), per entrare nelle fabbriche, nelle industrie, nei laboratori, incontrando nuove realtà, nuovi impulsi , visioni diverse della vita, altri interessi.

Don Candido giunge a San Bortolo nel periodo in cui si comincia a mettere in atto gli insegnamenti e le novità apportate dal Concilio Vaticano II. Notevole è il cambiamento: i fedeli sono chiamati a partecipare alle celebrazioni dei riti religiosi più attivamente, ad avvicinarsi ai sacramenti in modo nuovo. Il cristiano è direttamente coinvolto, diventa più partecipe, più consapevole.

Don Candido è profondamene convinto dell’importanza di questo cambiamento, della portata di tale rinnovamento. Non aspetta, inizia alacremente a coinvolgere la popolazione tutta. Crede che lo spirito del Concilio sia quello di valorizzare la persona, anche la più semplice, la più umile e di avvicinarla a Dio anche attraverso piccoli gesti, nuove e semplici manifestazioni anche esteriori, significative e dimostrative del proprio essere cristiani. Davanti a questi cambiamenti sorgono difficoltà, ostacoli, incomprensioni, ostinazione da parte dei più tradizionalisti e poco disposti al mutamento, al rinnovamento. Pur soffrendo, a volte restando umiliato e non compreso, don Candido non si lascia abbattere e prosegue nel suo intento di promuovere una vita cristiana, vissuta con umiltà, serenità, consapevolezza e, se necessario, con tenacia.

Don Candido, in tutto questo, coinvolge gli alunni delle scuole, si attornia di giovani di numerose persone volonterose, impegnate, fiduciose e desiderose di miglioramento. A tutti loro infonde coraggio, ardore, smussa quella innata timidezza che tanto danno e sofferenza ha arrecato a noi gente di montagna. A tutti imprime il coraggio di esprimere, manifestare le proprie capacità, apprezzare le proprie origini, di riscoprire i valori importanti della vita, i valori di chi vive legato alla terra, alla montagna. Rinsalda la conoscenza, approfondisce il credo cristiano, comunica certezze, rende più consapevoli. Nelle varie attività del paese, e non solo nei momenti di celebrazione di eventi religiosi, coinvolge le famiglie, le contrade, sollecita collaborazione fra queste, cancellando così, a volte, ataviche rivalità o antichi rancori.

Don Candido resta molto vicino agli anziani, conosce la vita, il suo grande valore, la precarietà delle cose; si avvicina ad essi con tanta dolcezza, con un grande sorriso che diventa benedizione. Ascolta, valorizza, promuove serenità, fiducia e speranza, vera speranza. Con entusiasmo ed attenzione ascolta i loro racconti, le loro “storie”, le loro esperienze; lascia che raccontino la loro vita vissuta, le gioie provate, i tanti sacrifici patiti, la guerra, le privazioni e, infine, la ripresa della vita, la ricostruzione materiale delle cose e spirituale degli animi. Don Candido è saggio, profondamente colto, registra nella sua mente i racconti, queste esperienze vissute le fa sue. Comunica gli insegnamenti ai più giovani in modo che l’esperienza degli altri divenga utile a chi si sta preparando a vivere. Nelle omelie, negli incontri con i gruppi, con le famiglie è costante il suo invito a riflettere, ragionare con la propria testa, a saper cogliere il valore ed il significato delle cose. Invita a sforzarsi di camminare con le proprie gambe, a valorizzare le proprie forze, a metterle alla prova, ad irrobustire la volontà, a non lasciarsi trascinare dalle cose, dagli eventi, dagli altri. E’ costante il suo incitamento a tirare fuori le capacità di ognuno, a mostrare le proprie aspirazioni, i propri desideri. Sprona tutti a tirare fuori la grinta assopita per migliorarsi e per migliorare ciò che sta intorno.

Per don Candido la persona è e resta immagine di Dio, qualunque sia la sua condizione sociale, il grado di cultura, il suo ruolo. Per valorizzare la persona don Candido comincia proprio dai “più piccoli” e, instancabilmente, coinvolge le autorità civili e della scuola fino ad ottenere l’istituzione della scuola materna statale a San Bortolo. Lui stesso mette a disposizione alcuni locali della canonica per lo svolgimento delle attività. I genitori sono entusiasti e, con grande sacrificio, a piedi, percorrono ogni giorno molti chilometri di strada per condurre a scuola i ragazzini. La scuola materna, intanto ha inizio, don Candido, sicuro che indietro non si torna, sollecita, pungola le autorità comunali, con costanza, con insistenza e, a volte, con durezza, “quando ci vuole ci vuole”, ottiene che il Comune ristrutturi la scuola materna, iniziata da anni e mai terminata. Così si prodiga affinché vengano eseguiti anche i lavori di sistemazione della scuola elementare di San Bortolo. Si adopera affinché vengano attivati corsi serali per conseguire il diploma della scuola dell’obbligo. Per alcuni giovani il conseguimento del diploma di scuola media è stato molto importante, hanno potuto così accedere a concorsi pubblici banditi presso enti ed inserirsi in ambiti di lavoro prima impensabili e dai quali la gente di montagna era sempre esclusa. Questo, ai nostri giorni, può sembrare insignificante, ma per capirne l’importanza, basta parlare con persone che hanno potuto beneficiarne.

Don Candido è un sacerdote molto colto, dedica tempo allo studio, alla ricerca, al sapere, al conoscere, crede nell’insegnamento, sa che il sapere riscatta la vita, anche la più semplice ed è per questo che, con grande sacrificio si dedica ad insegnare ad alcuni ragazzi più in difficoltà, lontani dalla scuola, sperduti nelle contrade lontane dal paese, che frequentano magari saltuariamente la scuola. Va ad insegnare a questi ragazzi, in queste contrade porta il preside ed alcuni insegnanti affinché si rendano conto delle difficoltà, delle enormi distanze, delle modeste condizioni di vita, per scoraggiare le tante “incomprensioni” degli stessi.

Don Candido è riuscito anche ad entrare nelle simpatie di alcuni ostinatamente lontani-indifferenti alla vita cristiana, alla vita della chiesa; è riuscito a coinvolgerli a renderli da indifferenti a persone attive, partecipi. Questi sono miracoli di chi, non solo crede ed ha una grande fede, ma di chi pone anche grande fiducia nella persona umana e nei suoi fondamentali valori. Ai tanti di noi che, per vari motivi, sono dovuti andare per il mondo, sono dovuti uscire dal “Piccolo mondo..”, don Candido ha saputo inculcare fiducia, coraggio, tenacia consapevolezza, coscienza di aver conseguito, maturato dei valori preziosi, che nessuno, in nessuna circostanza e per nessun motivo può toglierci.

Don Candido ha fatto sì che la nostra timidezza, si trasformi in educazione, rispetto, gentilezza, capacità di ascolto nei confronti di tutti coloro che incontriamo nella vita, La forza della preghiera che lui ci ha sempre insegnato, prima di iniziare ogni giornata, ogni attività, e perché no, anche prima di ogni festa, è diventata coraggio nell’affrontare le difficoltà della vita, è diventata forza che ci aiuta ad inginocchiarci e chiedere umilmente perdono delle nostre fragilità e tenacia nel sapersi rialzare e riprendere con fiducia il cammino. Grazie don Candido, grazie di tutto questo, siamo in molti a dirlo e ad avere la gioia di dirlo.

Ci sono alcuni che sentono il desiderio di ringraziarti perché ti sei adoperato ad infondere loro il coraggio di conseguire, allora, la patente di guida, hai infuso a loro fiducia. Questo semplice documento per un montanaro voleva dire libertà, possibilità di riscatto, comodità di scendere a valle, di essere di aiuto ad altri, di fare la spesa. Diversamente non restava che rimanere prigionieri di questi monti… E’ consapevolezza di tutti che la vita cristiana, il vivere la fede tramandata dai nostri padri, non è un qualche cosa di staccato dalla vita di tutti i giorni, ma ne è parte integrante. Per questo don Candido è vissuto ed ha insegnato a tutti noi a vivere cristianamente, e impegnati socialmente.  Si è prodigato per il bene della popolazione ed ha, continuamente, sollecitato e stimolato autorità politiche, amministratori locali, perché vengano realizzate nuove strade, sistemate le esistenti, portato l’acqua, la luce elettrica, in località ancora prive. Si è speso perché vengano migliorati i servizi di trasporto alle persone, perché vengano erogati aiuti alle famiglie, si è interessato a far conseguire la pensione a persone anziane o invalidi.

Credendo nella possibilità di vivere decorosamente in montagna si è interessato affinché venisse aperto un laboratorio tessile ed ha messo a disposizione locali della parrocchia. A tutti noi ha lasciato anche questa certezza di poter vivere quassù, nella semplicità, nella modestia; ci ha insegnato a valorizzare la natura che ci sta intorno, il verde dei nostri boschi, gli spazi sconfinati che possiamo ammirare, le montagne che, poste alle nostre spalle, ci proteggono, i preziosi silenzi che la nostra società ha soffocato e tante, ma tante altre cose. Di don Candido merita ricordare la capacità di valorizzare tutti, ognuno nelle sue peculiarità. Sapeva stare con l’insicuro, con l’incerto, lo rassicurava; sapeva dialogare con il depresso, con lo sfiduciato, con la persona triste, sapeva far sorridere, rincuorare. Sapeva tenere testa al superbo, al troppo sicuro di sé, lo smontava con la sua intelligenza ed il suo sorriso disarmante”.

Don Celadon, che era stato “confinato”, come detto prima, in una parrocchia marginale della montagna veronese, dopo sette anni di attività pastorale viene ancora confinato in una minuscola località, Vanoni Remelli, del Comune di Valeggio sul Mincio. La Curia aveva accolto le rimostranze di alcuni parrocchiani che, non contenti della “rivoluzione” avvenuta nel loro paese per l’opera del sacerdote, lo avevano accusato di aver alienato alcuni arredi sacri.

Roberto Dall’Olio: Malles/Mals e le mele biologiche

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Loro no
Loro hanno
Loro hanno detto
No
Ai veleni 
Sui loro pomi
Sui loro polmoni 
Sulla loro valle
Malles/Mals
Sudtirol/Alto Adige
Hanno votato no
Producono il 10%
Delle mele D’Europa 
Hanno detto basta 
Hanno tutti contro 
Mi ricordo di Brecht
Il melo fiorito 
Veste da sposa la Val Venosta/Vinschgau
Ma si sposava con la morte
Loro no
Hanno votato no
Che hanno preferenza di no
Hanno tutti contro
Sosteniamoli!

 

Gli abitanti di Malles Venosta, comune alpino di 5.000 abitanti al confine con Austria e Svizzera, hanno scelto di vietare l’uso dei pesticidi su tutto il territorio comunale. In questa piccola comunità dell’alta Val Venosta ubicata lungo l’antica via Claudia Augusta, dove l’economia locale è legata alla coltivazione delle mele, è accaduto l’impensabile: i cittadini, che sono anche in maggioranza agricoltori, hanno detto basta all’uso di fertilizzanti e prodotti chimici. Un risultato doppiamente straordinario per l’esito e per il metodo utilizzato dall’amministrazione comunale per consentire ai cittadini di esprimere un parere: il referendum propositivo a quorum zero.

Aulo Crisma: Settimio Ferrazzetta. Vita e pensiero di un frate francescano, primo Vescovo della Guinea Bissau

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Padre Settimio Ferrazzetta era un umile frate francescano diventato il primo vescovo della Guinea Bissau. Un volumetto, “ARTURO SETTIMIO FERRAZZETTA – VESCOVO IN GUINEA BISSAU”di autori vari, edito da Rete Guinea Bissau, racconta in quaranta pagine la vita straordinaria di un montanaro divenuto bissauguineano (nella Guinea Bissau dicevano di lui che era uno di loro nato per sbaglio in Italia). Era nato nella contrada Bernardi di Selva di Progno, provincia di Verona nel 1924. Fin da piccolo aveva avuto l’idea di farsi frate e missionario. Non aveva ancora tredici anni quando, accompagnato dal papà, da una sorella e una cugina, raggiunge Chiampo, dove c’è il collegio serafico, dopo sette ore di cammino scavalcando la montagna che separa la Val d’Illasi da quella di Chiampo. Altre lunghe camminate attraverso paludi e foreste lo avrebbero atteso in Guinea Bissau, il più povero stato dell’Africa, ancora colonia portoghese nel 1955. Insieme a fra Giuseppe Andreatta e fra Epifanio Cardin si porta nel lebbrosario di Cumura, a dieci chilometri da Bissau. Qui incontrano i più poveri dei poveri che vivono abbandonati nelle peggiori condizioni igienico sanitarie . Prima di raggiungere l’Africa si era fermato per sei mesi a Lisbona per imparare il portoghese, lingua ufficiale della Guinea Bissau. E qui si impadronisce del creolo, la più diffusa lingua locale, che gli consente di avere rapporti immediati con la popolazione. Il lavoro non manca. Si tratta di costruire dal nulla la missione. Dopo qualche anno un nuovo lebbrosario sostituisce le fatiscenti capanne. E con l’aiuto dei lebbrosi sorge anche l’abitazione dei frati che un po’ alla volta vengono accettati ed apprezzati dai bissauguineani, che prima si tenevano alla larga per non contaminarsi. L’assistenza ai malati e ai più miseri è il problema più urgente da affrontare. Alla medicazione delle ferite viene riservata la mattinata. Nelle altre ore della giornata l’impegno è rivolto all’assistenza sociale e spirituale. Arrivano altri frati e in seguito anche le suore. Altri centri missionari sorgono nel vasto territorio.

 

 

Quando nel marzo del 1977 il papa Paolo VI lo nomina vescovo, padre Settimio è il primo a stupirsi. Pensa di non essere lui il destinatario della lettera recatagli dal segretario della Nunziatura apostolica di Dakar. A malincuore, per obbedienza, accetta l’incarico. Ottiene però di rinviare fino alla metà di maggio la comunicazione ufficiale. Il motivo è che deve portare a termine la costruzione delle casette per gli ex lebbrosi anziani rifiutati dalle loro famiglie. Padre Settimio ha un profondo rispetto per i guineani. Instaura un rapporto di reciproca stima con tutti. Siano essi di fede animista, la maggior parte, o di fede musulmana o cristiana, li tratta con la stessa attenzione. Diventato vescovo, padre Settimio rimane l’umile frate sempre pronto ad aiutare i più bisognosi. Ad un volontario che doveva recarsi lontano nella foresta alzandosi prima dell’alba ha preparato il caffè e gli ha messo in mano una bottiglia di cognac dicendo: “Questa in caso avessi bisogno”. Un altro fatterello è stato raccontato dal comandante di una nave che aveva portato materiale per la Missione. Domanda ad un uomo in braghette corte e canottiera seduto su un ceppo dove può trovare il vescovo. “Sono io” risponde padre Settimio che, invitato a pranzo sulla nave, mangia la pastasciutta e, come i montanari di una volta, l’accompagna con il pane. Manda a studiare in Italia decine di guineani e guineane. Con l’assistenza dei volontari, in particolare di Vittorio Bicego che è il braccio destro di padre Ferrazzetta, i giovani imparano a coltivare gli anacardi e a confezionarli sul posto nel rispetto di tutte le norme igienico sanitarie, pronti per l’esportazione e il consumo. Alcuni suoi compaesani passano le ferie a fare l’idraulico, l’elettricista, il muratore. Una non più giovane compaesana trascorre per molti anni l’estate a far la cuoca nella Missione.

Quando nel giugno del 1998 scoppia la guerra civile, mons. Settimio si prodiga per pacificare i contendenti. Nonostante i suoi settantaquattro anni e la salute precaria attraversa più volte la palude per convincere i capi delle due fazioni a concludere un accordo che, anche per la sua opera, viene raggiunto ai primi di novembre dello stesso anno. Ormai alla conclusione dei suoi giorni, addolorato per la guerra fratricida, dice: “Come Chiesa abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo costruito tante cose: scuole. ospedali, strade, chiese… ma non siamo riusciti a (ri)costruire il cuore della gente”.

 

 

Il libro “Monsignor SETTIMIO ARTURO FERRAZZETTA, Testimone di pace in Guinea Bissau (1924-1999) di Filomeno Lopes, edito da L’Harmatan Italia srl, 2013 – rist. 2020, riporta una lunga intervista “a puntate” durata due anni che il Vescovo ha rilasciato quando ritornava in Italia per brevi periodi. Sentendosi prossimo alla fine della vita, approfittando della convalescenza dopo un intervento chirurgico, ha voluto concludere il dialogo con Filomeno Lopes. E’ quasi un testamento spirituale che contiene indicazioni sulla via da percorrere per raggiungere una vera e duratura pacificazione. L’emblematica foto di copertina lo mostra stremato in cammino sulla palude. Consuma la poca energia che gli resta per convincere le opposte fazioni ad accordarsi. Con le braccia spalancate sulle spalle dei giovani che lo sorreggono, il capo reclinato sul petto, sembra l’icona di Cristo in croce. Filomeno Lopes è uno dei tanti bissauguineani mandati in Italia a studiare. Si è laureato in Filosofia e Comunicazione presso l’università Gregoriana di Roma. Lavora come giornalista alla Radio Vaticana. Nell’introduzione del libro mette in luce l’opera poderosa che mons. Ferrazzetta ha svolto per la Guinea Bissau e per l’Africa in generale. Alle puntuali domande rivoltegli il Vescovo risponde con un linguaggio lineare, semplice ma di elevato significato. Ha idee chiare anche sulla colonizzazione che è stata abolita ma è ritornata di fatto a sfruttare la terra e il popolo dell’Africa. E sostiene che la Chiesa, accanto all’opera di evangelizzazione, deve promuovere lo sviluppo culturale, sociale ed economico della gente.

Alla fine della conversazione si augura che la Chiesa di Guinea Bissau “cresca in numero e qualità, per diventare presenza importante in mezzo alla società civile”. Alle sue esequie, protratte più volte a causa del ritorno delle ostilità, partecipano migliaia e migliaia di bissauguineani di entrambe le fazioni e di ogni fede religiosa. Il presidente della Guinea Bissau conferisce alla memoria del Vescovo la “Medaglia Amilcar Cabral”, la più alta onorificenza dello Stato, consegnandola al fratello Carlo giunto dall’Italia per essere presente ai funerali. Nel luglio del 1999 il nostro Presidente della Repubblica gli conferisce la medaglia d’oro al Merito Civile. Selva di Progno, il paese natale, con il gruppo missionario, erige un monumento nello spiazzo che porta il suo nome. La sua casa nella contrada Bernardi è diventata un museo. All’inaugurazione avvenuta a vent’anni dalla morte nel giugno del 2019, era presente mons. Josè Càmnate Na Bissign, vescovo di Bissau Un grande tronco di abete scortecciato attraversa i tre vani sovrapposti che nella scarna semplicità sono in sintonia con la grande umiltà di mons. Settimio.

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